Definiamo neolitiche “le società preistoriche che producono del tutto, o in parte, gli alimenti di cui hanno bisogno” (LOUBOUTIN 1993: 14), ovvero le società in cui da raccoglitore-cacciatore l’uomo diventa produttore. In altri termini, il Neolitico è il periodo in cui l’uomo, grazie alla scoperta dell’agricoltura e alla pratica dell’allevamento di animali, impara a procurarsi da sé, in modo sistematico, ciò di cui ha bisogno e comincia a controllare il proprio destino.
La diffusione di agricoltura e allevamento rendono possibile la costituzione di un consistente surplus alimentare e stanno alla base della proliferazione di villaggi stabili, dove gruppi umani sempre più numerosi ed eterogenei si trovano a vivere in spazi relativamente ristretti e tendono a darsi un’organizzazione sempre più solida, dalla quale emergerà la città. L’intero Neolitico può essere visto come la lunga fase di passaggio dalla cultura di villaggio alla cultura urbana, che ha la sua struttura-simbolo nel «dominio» o «potentato» o chefferie o chiefdom. In questo libro questi termini verranno usati come sinonimi, per indicare “una forma di organizzazione politica e sociale di transizione verse forme più alte e complesse quali quella statuale” (LI CAUSI 1993: 93).
Il Neolitico è l’epoca dei grandi dominî, che sorgono sulle rive fertili dei fiumi, o comunque in vicinanza di una sorgente d’acqua dolce e che presentano già i principali tratti che la caratterizzeranno le città, vale a dire un’estesa divisione del lavoro, un’articolata stratificazione sociale, un apprezzabile apparato burocratico e militare, l’introduzione della proprietà privata, l’affermazione della figura del condottiero-re, la diffusione della guerra e della schiavitù. È in questo contesto che, per la prima volta, “il cacciatore si trasforma in guerriero” (CHAVAILLON 1998: 151) e la comunità comincia ad assumere una forma piramidale (classi sociali) e duale (ricchi e poveri). Da questo momento l’evoluzione culturale è costretta ad arretrare e cede il posto ad un’evoluzione culturale che la sopravanza, un’evoluzione fondata sulla legge del più forte diventata diritto, da cui ancora oggi dipendiamo. Tutto ciò giustifica ampiamente l’appellativo Rivoluzione, che è stato attribuito a questo periodo.
La diffusione dei villaggi permanenti e dei dominî non determina la scomparsa dei gruppi tribali, che anzi, grazie a queste nuove realtà, riscoprono i valori della propria cultura millenaria e rafforzano la propria identità. Così, mentre si affermano i primi superbi villaggi fortificati, molte popolazioni nomadi continuano a vivere sostanzialmente di caccia e raccolta e in regime di eguaglianza e autarchia, tenacemente attaccati al proprio passato e fieri delle proprie libertà. In tutto il Neolitico, i due mondi, quello nomade e quello urbano, coesistono e si impongono come due opposti modelli di vita: se i nomadi rappresentano la stabilità e la fedeltà alla tradizione dei padri, i dominî costituiscono il simbolo dell’innovazione e del progresso.
Il dominio
Alla fine del Mesolitico la regione della Mezzaluna Fertile è disseminata di piccoli villaggi costituiti di poche decine di capanne, che sorgono tutt’intorno alla Casa del dio. Nonostante il loro aspetto dimesso, essi costituiscono la sede di residenza dello sciamano e il punto di riferimento di un’intera tribù. Questo è il quadro che abbiamo descritto nel capitolo precedente. Ebbene, nel corso del Neolitico, in alcuni villaggi, grazie alla diffusa pratica dell’agricoltura, si riescono a costituire quantità di surplus tali da rendere possibile la fondazione di un dominio, ossia un villaggio fortificato capace di controllare un esteso territorio adibito a colture e pascoli.
Nel dominio, “l’esercizio del potere tende a rivestire un carattere molto più formale che in una tribù e l’autorità di un capo tende a non fondarsi più sul consenso, mentre le funzioni politiche tendono a trasformarsi in cariche più o meno stabili a carattere ereditario” (FABIETTI 2004: 334). Rispetto alle tribù, i domini sono più popolosi, potendo contare decine di migliaia di membri, non necessariamente imparentati, praticano una maggiore divisione del lavoro e riconoscono un’autorità politico-religiosa, che tende a istituzionalizzarsi e a trasmettersi ereditariamente. “I capi dei domini si circondano di simboli (emblemi e insegne di varia natura: scettri, troni, tamburi, armi, abiti da cerimonia) che esprimono la sacralità del potere, sacralità che trova fondamento nella rivendicazione dell’origine soprannaturale del potere e nella sua funzione mediatrice fra i sudditi e gli spiriti, della cui benevolenza i capi si fanno garanti” (SCARDUELLI 1993: 733). In definitiva, il dominio è propriamente questo: un villaggio dove vengono ostentati i simboli del potere politico-religioso che, a loro volta, servono a collegare la sfera umana con quella divina e a mantenere coesa la comunità grazie all’effetto collante di una tradizione locale cui si unisce la paura del castigo divino e del ricorso alla forza armata delle istituzioni.
Il capo
Gli abitanti del dominio hanno ormai perso la tipica autosufficienza dei cacciatori-raccoglitori e tendono a specializzarsi in specifiche attività lavorative, così che, accanto alla figura del contadino, si va affermando quella dell’artigiano, del soldato, del sacerdote, del funzionario e del capo. Il dominio è la prima società non egualitaria, dove una classe dominante, numericamente minoritaria, si investe o viene investita di un potere decisionale e impositivo su tutta la comunità. Ma come fa il capo a tenere buoni i gruppi familiari e i clan e ad evitare che si sollevino contro di lui? Il più appariscente strumento di dissuasione e controllo delle masse è la milizia armata, che rappresenta la forza bruta ed è in grado di intimidire le masse. Da sola, essa non potrebbe funzionare, perché è molto dispendiosa e pericolosa. Se però la si associa allo strumento ideologico, le cose cambiano. In realtà, il principale strumento di dominio sulle masse è di natura culturale e consiste, come abbiamo visto, nella elaborazione di riti e di racconti mitici, che alimentano una tradizione locale di tipo legittimante. La più potente ideologia di dominio è quella religiosa. La religione “aiuta a risolvere il problema della convivenza pacifica tra estranei, provvedendo a fornire un legame comune che va al di là della parentela. In secondo luogo, fornisce qualche motivazione di carattere idealistico per il sacrificio della vita” (DIAMOND 1998: 220). Grazie alla religione, non solo il suddito si dispone all’obbedienza all’autorità costituita, ma accetta anche di sacrificare la propria vita per la ragion di Stato. Non deve perciò stupire se, nel Neolitico, il capo sia ritenuto di origini divine e gli si attribuisca uno status superiore, che viene esteso anche ai suoi parenti, insieme al privilegio di trasmettere il potere ai figli.
Al capo competono delle funzioni, che sono principalmente di tipo decisionale e giuridico e le quali possono essere esercitate pensando al bene comune o al proprio interesse personale. Perciò le famiglie tenderanno a distinguere i capi buoni da quelli inetti, ma su questo avremo modo di ritornare in seguito. Per il momento ci basti solo osservare che, nel Neolitico, il potere concentrato nelle mani di una persona può essere visto dalle persone come un bene o come un male, a seconda dei casi. In ogni caso, tuttavia, per poter svolgere le sue funzioni, un capo deve disporre di collaboratori e di risorse per il loro sostentamento. Perciò, gli viene riconosciuto il diritto di riscuotere un tributo dai suoi sudditi (surplus), che egli immagazzina e usa nel modo a lui ritenuto più opportuno: non solo per mantenere la milizia armata e i funzionari, ma anche per venire incontro alle aspettative del popolo, ad esempio, operando pubbliche elargizioni in certe ricorrenze o soccorrendo le famiglie in difficoltà.
Il contadino
L’intero sistema sociale del dominio poggia sulla produzione agricola e sulla figura del contadino. Il contadino trae i mezzi di sussistenza dalla terra che ha coltivato e ad essa è perciò saldamente legato ed è disposto a difenderla come se si trattasse della propria vita.
Il principale dovere del contadino nei confronti del capo è quello di versare il tributo prestabilito. In cambio «avrebbe» il diritto di essere tutelato nei confronti di ladri, predoni e nemici esterni. Dico «avrebbe», perché, il più delle volte, il capo non fa in tempo ad intervenire e, dunque, il contadino deve cavarsela da solo. Ora, il miglior modo di difendere la propria terra è essere numerosi: una famiglia è troppo debole per difendersi, mentre le probabilità aumentano considerevolmente per un clan. Alla fine, la soluzione più funzionale per un dominio si rivela essere quella di frazionare il territorio in ampi lotti gestiti da clan, come proprietà collettiva. Ciò però indebolisce il potere dell’autorità centrale, la quale non è più sicura di riuscire a riscuotere il tributo e, pertanto, il capo villaggio tende ad identificarsi con lo sciamano, che può sempre contare sulle offerte che le famiglie continuano ad elargire alla divinità per ottenerne i favori.
Si va così affermando l’idea di proprietà privata collettiva: una terra o una casa appartiene a un gruppo o a qualcuno, che vi lavora e vi dimora e che la può trasmettere in eredità ai suoi figli. All’interno di un clan, le famiglie più numerose e meglio organizzate cominciano a costruire dimore fisse in legno o in pietra, dove vivono in dieci-venti persone insieme agli animali domestici. Adesso la casa e la terra costituiscono ora un bene appetibile e devono essere difese dalle mire di malintenzionati. Per il momento, la proprietà si limita alla terra che un gruppo di uomini lavora direttamente con le proprie mani e alla casa che una famiglia abita concretamente, a condizione che quella terra e quella casa possono essere efficacemente difese dalla bramosia di altri. Possiamo parlare di un «diritto» fondato sul lavoro e sulla forza, non già di un diritto di principio, tutelato dalla legge, semplicemente perché l’idea di diritto giuridico ancora non si è affermata. Se una comunità che lavora una terra non è in grado di difenderla, rischia di perderla, perché un gruppo più forte gliela sottrae.
Il surplus e il fenomeno del banditismo
Col tempo avviene che quasi tutti i contadini dispongono di una propria dispensa, che di solito è di modeste dimensioni, mentre la gran parte del surplus rimane ammassato nella Casa del dio. La disponibilità di riserve alimentari costituisce un vantaggio ed un problema ad un tempo: il vantaggio è quello di poter meglio affrontare i periodi di crisi; il problema è che il surplus rappresenta anche un oggetto di tentazione e di desiderio per molti, sia indigeni che stranieri. Insomma, dopo la rivoluzione agricola, l’uomo si accorge che la disponibilità di riserve alimentari non comporta solo vantaggi ma anche tanti affanni. In particolare, è nettamente aumentato il rischio di essere depredati dei propri beni, delle proprie donne, della propria vita. Bisogna sapersi difendere oppure, perché no?, sapere attaccare: meglio depredare che essere depredati. Ma è necessario essere uniti: senza unione non c’è forza. Nascono nuovi problemi. Chi tiene uniti i diversi gruppi? Chi difende le persone e le cose? Chi organizza le attività produttive? Chi amministra la giustizia? Chi cura i rapporti con le popolazioni vicine? Chi decide per la guerra e per la pace? In altri termini: chi assume il comando? La situazione è favorevole alle autorità tradizionali, ossia anziani e sciamani, e in effetti, sempre più spesso, essi si trovano ad essere investiti di poteri straordinari, anche se molti non si rivelano all’altezza delle nuove sfide e devono lasciare il posto a gente nuova, a personaggi senza scrupoli che si uniscono in squadra e usano la forza bruta per acquisire risorse e incutere paura e rispetto, chiamiamoli pure banditi, briganti, predoni o in qualunque altro modo preferiamo. Pur essendo poche unità, o poche decine, di uomini, il fatto che siano ben armati e ben organizzati intorno alla figura di un capo fa di loro una vera e propria calamità per chiunque abbia dei beni da curare e custodire.
Ciò che rende temibile un manipolo di banditi è la loro organizzazione e la loro determinazione, ma nessuna squadra di banditi potrebbe avere vita lunga se non adottasse una qualche politica redistributiva tale da cattivarsi la gratitudine e la riconoscenza dei propri clan. Il bandito vive in branco, mostra i muscoli, minaccia, si dispone a combattere, uccide, distrugge, ma, nello stesso tempo, blandisce e protegge i contadini e da pericoli esterni, reali o presunti che siano, e perfino da se stesso. Servendosi della forza, egli attenta alla proprietà privata o alla persona altrui, vive di rapina e saccheggi, organizza anche incursioni in territorio straniero allo scopo di devastare o saccheggiare, portando via viveri, animali o anche persone. Il bandito mette a sacco, fa man bassa, porta via da un luogo quanto possibile, spesso distruggendo ciò che non gli è di vantaggio immediato, perché potrebbe rallentare la sua velocità di spostamento e renderlo vulnerabile. In altri termini, il bandito vive sul lavoro altrui. Solo se è sufficiente forte, una comunità agricola può resistere ai banditi, altrimenti deve cedere alle loro richieste e mantenerli col proprio lavoro.
Una squadra di banditi può tenere in pugno diverse comunità agricole e controllare un territio relativamente esteso, di cui, in pratica, essi sono i padroni e i contadini la popolazione sottomessa. Ma i banditi devono stare bene attenti, perché, nel momento in cui perdono la compattezza e mostrano segni di debolezza, o tengono tutto per sé, rischiano di essere fatti a pezzi dai contadini inferociti o dalla stessa propria gente. L’attività del bandito perciò non è facile e richiede doti particolari, soprattutto per quel che concerne la figura del capo, che in questo caso è determinante. Il capo di successo dev’essere sufficientemente feroce, astuto, inflessibile, autoritario, capace di mantenere la disciplina e punire in modo esemplare ogni gesto di disobbedienza, ogni iniziativa privata e ogni gesto in grado di portare alla disgregazione del gruppo, e, al tempo stesso, dev’essere prudente, generoso, clemente e saggio coi suoi uomini, sì da compensarli adeguatamente per la loro fedeltà e non esporli ad inutili pericoli. E, tuttavia, queste qualità non si rivelano sempre sufficienti ad assicurare lunga vita al capobanda: a volte basta un errore, un tradimento o una fatalità per decretare la sua fine e il suo avvicendamento.
In qualche caso particolarmente fortunato, avviene che un capobanda non solo riesca a conservare il proprio potere per tutta la durata della propria vita, ma anche i suoi figli si rivelino all’altezza del padre e ne ereditino degnamente il posto. Quando ciò avviene, quando cioè una famiglia riesce ad esprimere figure di capibanda per più generazioni, si creano i presupposti perché quella famiglia venga ritenuta superiore alle altre e i suoi successi siano ricondotti alla benevolenza di qualche divinità. Perciò un capobanda può essere elevato a capo del proprio clan per volere divino e per volere della gente, onorato e temuto. Ma questo riconoscimento non significa che il potere del capoclan sia al riparo da ogni rischio. Infatti, la gente si aspetta che il signore esibisca una condotta tale da meritarsi l’aura di superiorità che lo circonda. Se le sorti del signore e della sua famiglia declinano, ciò viene visto come segno che il dio ha rivolto i suoi favori altrove e nuovi personaggi salgono alla ribalta e si candidano per la successione. In ogni caso, il signore è solo un primus inter pares, ossia il più onorevole fra tutti gli altri capifamiglia del clan della regione, non dispone di un potere legale, perché non esistono leggi, né di un potere burocratico o politico, perché ancora non si concepisce lo Stato. Il suo potere si fonda in parte sul riconoscimento, sul successo e sul consenso.
Alla fine, tutti i clan di una tribù dedita al banditismo avranno il loro capo, ma non si conosce ancora la figura di capo dei capi, ossia di un capotribù stabile: i capitribù sono figure temporanee, che si affermano solo quando si profila una minaccia esterna o quando, a causa di una grave situazione critica interna, si devono prendere decisioni importanti di interesse generale, come quella di intraprendere un’azione di difesa, di razzia o di conquista.
La pratica della razzia nasce proprio dal bisogno di sopperire alla ricorrente scarsità di risorse. In ogni caso, i beni depredati vengono distribuiti fra i membri delle rispettive famiglie, allo scopo di alleviare e risolvere lo stato di crisi alimentare. “In questa logica si può capire perché la razzia non sia considerata dai nomadi un atto efferato, violento, come si può pensarla dall’esterno. Essa rispetta certe regole […]. Essa mira esclusivamente alla predazione del bestiame e non è mai spietata, nel senso che lascia sempre il minimo indispensabile al gruppo razziato” (TURRI 2003: 195-6).
Col tempo, si affermano dei clan votati specificamente alla razzia, i cui uomini, organizzati in squadre al comando di un leader, vivono sempre meno di agricoltura e pastorizia, e sempre di più di rapina, seminando terrore e morte. Presso questi clan, la razzia è considerata un’attività produttiva come un’altra, un modo lecito di procurarsi risorse, e i razziatori sono uomini coraggiosi e degni di ammirazione: le loro imprese vengono considerate alla stregua di gesti eroici e salvifici, qualcosa di cui andare fieri. A differenza dei ladri solitari, perciò, i razziatori non hanno motivo di nascondersi e possono agire alla luce del sole. È sufficiente un piccolo gruppo di 5-10 razziatori senza fissa dimora, ben organizzati, che attaccano all’improvviso e rapidamente spariscono nel nulla, per avere ragione di una famiglia di contadini, che lavorano qua e là nella campagna. Essendo più forti, e anche legittimati, i razziatori non hanno nulla da temere e possono perfino uccidere impunemente quanti oppongono resistenza.
Il bandito è uno che, per mentalità, si procura ciò che desidera ricorrendo alla forza organizzata, è sicuro di sé, non sente il bisogno di un’entità sociale superiore che lo protegga, non è incline a riconoscere alcuna istituzione umana e nemmeno appare disposto a versare tributi al alcuno e per nessuna ragione. Ciò che rende nuova questa figura è la presenza di un capo e il prevalente ricorso alla forza per procurarsi le risorse necessaria alla sussistenza. Un personaggio siffatto è in grado di sconvolgere l’ordinamento esistente e perciò non è ben visto né dal sacerdote-re, né dalle possibili vittime, che lo temono come la morte. Egli sa di avere dei nemici, ma non gliene cale, anzi va fiero del suo status, che, oltre a consentirgli un’autonomia che i contadini possono solo sognare, gli conferisce un certo potere anche nei confronti del sacerdote-re, che lo teme e lo rispetta. Questa apparente invidiabile posizione, in realtà ha un prezzo: il razziatore-bandito e la sua squadra devono rinunciare ad una dimora stabile, non possono legarsi ad una terra o accumulare surplus, né possono svolgere una qualsiasi attività regolare, perché, in tal caso, si esporrebbero agli attacchi dei loro nemici. La vera forza del razziatore-bandito risiede nella sua inafferrabilità: egli piomba come una furia sulla vittima predestinata, la depreda e subito si dilegua, sparendo nel nulla insieme al suo bottino. Di solito predilige fissare le sue tende in aree montagnose o semidesertiche, ai margini dei territori abitati e nelle terre di nessuno.
Il banditismo organizzato rappresenta un fenomeno sociale dilagante, che tende a diffondersi nel corso del Neolitico, seminando il panico fra le famiglie contadine, che non sono in grado di difendersi, e incutendo paura anche ai sacerdoti-re, che si vedono costretti a rinforzare le difese del tempio, con costi che, inevitabilmente, vengono a ricadere sui contadini. Agli occhi dei contadini, i razziatori sono delinquenti della peggiore risma, dei veri e propri criminali e dei feroci banditi, una piaga malefica, con la quale sono costretti a convivere e con la quale sono disposti a scendere ad un qualche compromesso, come quello di pagare un tributo, pur di essere lasciati in pace. Ma così facendo, la situazione dei cittadini rischia di divenire insostenibile, perché, dopo aver pagato un doppio tributo al sacerdote e ai banditi, alla fine, spesso non hanno di che sfamare i propri figli e le loro stesse vite sono in costante pericolo.
La società duale
A loro volta, per difendersi dai predoni, anche le tribù che vivono di agricoltura tendono ad organizzarsi gerarchicamente. In entrambi i casi si viene a determinare quella che chiameremo società duale, perché vi si possono distinguere nettamente due parti: una minoranza dominante e una maggioranza dominata. Ebbene, il villaggio provvisto di simboli di potere è la forma più semplice di società duale è, ovverosia il dominio.
Abbiamo visto come la necessità di proteggere il surplus abbia portato alla costituzione di una classe dominante, ossia di una minoranza che controlla il surplus stesso, attraverso un impiego sistematico della forza, che prima era sconosciuto. “Laddove c’è eccedenza e accumulazione, la coercizione diventa socialmente inevitabile, mentre prima era facoltativa” (GELLNER 1999: 48). Da questo momento, l’azione violenta, in qualunque forma perpetrata (furto, rapina, razzia, guerra), diventa una “regolare fonte di guadagno” (ENGELS 1976: 136). Ora, quando c’è una minoranza che controllo un surplus e lo difende con una forza istituzionalizzata siamo prossimi alla nascita dello Stato. Lo Stato, infatti, nascerà dal surplus e dalla necessità di controllarlo e difenderlo.
Contadini e pastori
Le comunità contadine e nomadi hanno strutture sociali molto diverse, perché conseguono ad esigenze molto diverse.
Intanto, i contadini non possono nascondersi, né fuggire: essi sono là dove sono le loro terre ed è fondamentale per il loro futuro che essi siano abbastanza numerosi da disporre di braccia per lavorare la terra e per difenderla. Le tribù contadine tendono perciò ad essere il più possibile numerose in rapporto alla disponibilità delle risorse. Inoltre, quando i singoli clan fanno fatica a difendersi dai predoni, i contadini non hanno altra scelta che predisporre una difesa comune e, a tale scopo, devono conferire il potere nelle mani di una persona, che potrà essere lo sciamano o un condottiero, a seconda che si vorrà adottare una politica di sola difesa o anche di attacco.
Per le società contadine non c’è limite teorico all’estensione territoriale o demografica, anzi, più una società è estesa e numerosa, meglio è. L’ideale sarebbe, dunque, unire più tribù in un unico soggetto politico, ma non è facile far convivere armoniosamente popolazioni legate a tradizioni diverse e abituate all’autarchia. Tuttavia, come vedremo, qualche capo riuscirà nell’impresa e diventerà capo-dominio, ossia capo riconosciuto e permanente di molte tribù. Ciò che caratterizzerà il capo-dominio è il potere impositivo sui suoi sudditi e la forza necessaria alla riscossione delle imposte. Grazie alle entrate fiscali, il capo-dominio può disporre di una milizia armata e di un piccolo corpo di funzionari stabili, che vengono dislocati nei punti strategici del dominio allo scopo di presidiarlo e difenderlo dalle incursioni dei predoni. Anche se non sortisce l’effetto sperato, questa nuova organizzazione costringe i predoni ad arretrare in zone sempre più remote e inaccessibili e a darsi una nuova organizzazione.
Chi risiede in zone aride non può contare solo sui frutti della terra, ma deve trovare il modo di integrarli con altre risorse, per esempio, con la pastorizia. I pastori nomadi non sono legati a nessuna terra, non hanno dimore stabili, né surplus, ma sono liberi di muoversi di muoversi al seguito del proprio gregge alla ricerca di pascoli, raccogliendo, lungo il cammino, ciò che capita, compresi i prodotti dei contadini. La loro arma migliore è la fuga. Ora, però, che la resistenza dei contadini è aumentata, è necessario che i pastori accrescano la propria forza. Di qui la necessità di stringersi intorno ad un capo comune, ma a questo loro sono già avvezzi e non devono fare una grande fatica a creare squadre più numerose. A differenza del capo dominio, il capotribù nomade non ha poteri precostituiti, ma è solo un condottiero secondo necessità. Tipicamente, egli entra in scena solo quando c’è da condurre un’azione armata, un’incursione, un saccheggio, o per difendersi da un attacco di nemici esterni. Così, mentre si costituiscono i dominî nelle aree fertili e coltivate, intere tribù di nomadi-pastori-banditi vivono dislocate nelle regioni più aride e semidesertiche.
Per assicurarsi la propria coesione interna, anche le tribù nomadi hanno bisogno di sviluppare un’ideologia funzionale al proprio stile di vita. Anch’essi hanno le proprie divinità tutelari, i propri sciamani, i propri luoghi sacri, i propri giorni di festa, le proprie tradizioni, i propri valori. Per una tribù nomade, il valore più grande è l’autarchia, il non dover dipendere che da se stessi, la libertà, il non essere legati ad una casa o ad una terra, il non essere impastoiati da istituzioni politiche, né da apparati burocratici, il non avere bisogno di eserciti, né di funzionari, il non essere sottoposti a tributo. Questi valori accomunano tutte le tribù nomadi e suscitano in loro un sentimento di affinità, che diviene particolarmente intenso quando sussiste uno stato di tensione con le comunità contadine, il che può avere l’effetto di compattare diverse tribù nomadi sotto un solo capo, ad esempio, per poter resistere ad un tentativo di sterminio da parte di un capo dominio. Una coalizione di tribù nomadi in atteggiamento difensivo costituisce un ostacolo non facile per qualsiasi dominio.
Di regola, una tribù nomade non ha alcuna velleità di conquista. Conquistare un territorio, infatti, significherebbe la fine del nomadismo e la ricusazione di tutti i valori legati ad esso, in altri termini, la perdita della propria identità. Pertanto i nomadi non hanno interesse a costituire comunità numerose: avere più bocche da sfamare significa necessità di maggiori spostamenti, maggiori razzie, maggiori scontri coi contadini, ma anche maggiore lentezza nei movimenti e maggiore vulnerabilità. L’ideale per una popolazione nomade è vivere in perfetto equilibrio con la natura, avendo però mezzi sufficienti per razziare i beni dei contadini e per difendersi dalle loro prevedibili reazioni. Per il momento, la razzia rappresenta una necessità, la necessità di reperire risorse per la sussistenza, e, come tale, essa è considerata un’azione meritoria. Così, quelli che per un capo dominio sono dei banditi, per la gente nomade diventano benefattori, se non eroi. Questa contrapposizione culturale vale anche all’inverso: per i contadini, sterminare i nomadi significa liberare la regione da persone incivili e violente; per i nomadi, praticare la razzia significa togliere ai contadini ciò che loro hanno in abbondanza per non far morire i propri figli di fame e difendersi dai contadini significa preservare le proprie vite e la propria identità.
Ricostruzione immaginaria di un evento accaduto 8 mila anni fa
Non possiamo sapere dove, come e da chi sia stato fondato il primo dominio, ma non è difficile immaginarlo. Vi ricordate il villaggio di Fiume Impetuoso? È da lì che riprenderemo il nostro racconto. A Fiume Impetuoso succede Piccolo Lupo, che mantiene la stessa linea politica del predecessore e sa operare con tale saggezza che la sua fama si diffonde ben presto in altri villaggi. Un giorno, ritenendo che sia giunto il momento di farsi ripagare dei suoi meriti, convoca in seduta straordinaria e così parla loro: “Il dio assicura a tutti noi la sua protezione da ogni pericolo, interno ed esterno. In cambio chiede solo ubbidienza. Si è compiaciuto del mio operato e mi ha eletto suo umile servitore finché avrò vita. Vuole che io amministri i suoi beni, utilizzandoli a sua gloria e a beneficio di quanti si trovano in condizione di bisogno. Comanda che io dimori in una tenda e indossi abiti adeguati al ruolo cui sono chiamato, affinché tutti sappiano che io sono il suo figlio prediletto. Da parte mia, ho dichiarato la mia disponibilità incondizionata a servirlo e onorarlo come merita. Purtroppo il nostro benessere attira orde fameliche di banditi, che ci attaccano da ogni parte e fanno razzia dei nostri beni, mettendo in pericolo le nostre stesse vite. Il dio mi ha ordinato di realizzare opere di fortificazione e ad aumentare il numero delle guardie armate a salvaguardia della Casa del dio e delle risorse in essa custodite. Da parte mia, mi sono impegnato a mettere in pratica ciò che il dio comanda. E voi, siete disposti a collaborare con me?”.
Ottenuta la scontata approvazione, Piccolo Lupo avvia una serie di attività e introduce dei cambiamenti della propria immagine, che conferiscono al villaggio un nuovo aspetto e una nuova struttura. Per prima cosa, procura delle pelli di prima qualità per ricoprire il suo corpo, poi fa abbellire la propria tenda, ai lati dell’ingresso della quale fa piantare due grossi bastoni che i migliori artigiani hanno provveduto a lavorare e colorare finemente in superficie e all’estremità dei quali viene fissato il teschio di un cervo maschio adulto. Da altri artigiani fa costruire utensili particolarmente raffinati, strumenti di lavoro, vasellame, statuine decorative e armi, che sono destinate all’uso esclusivo del personale che lavora al servizio del dio e dello sciamano; né dimentica di far realizzare opere di fortificazione e di assumere altre guardie armate a protezione del tempio e della propria tenda. Tutto questo personale viene ripagato con il surplus della Casa del dio.
La figura del sacerdote-re e la nuova teologia
Investito di poteri istituzionali e con prerogative che spaziano dal campo economico a quello sociale, dalla sfera religiosa a quella politica, dall’ambito culturale a quello militare, Piccolo Lupo Egli è, di fatto, il primo sacerdote-re del Neolitico. Nello stesso tempo, la Casa del dio comincia a svolgere le funzioni tipiche del tempio, diventa cioè un centro di potere politico oltre che religioso. A differenza dello sciamano, il sacerdote è una figura istituzionale e, in quanto tale, egli è investito di facoltà e prerogative che sono fondate su una ben definita cultura teologica, che si è andata elaborando anche allo scopo di liberare il sacerdote dal peso di scomode responsabilità cui invece lo sciamano era soggetto. La nuova teologia assume che gli eventi umani dipendono unicamente dal dio, mentre il sacerdote dovrà limitarsi a officiare riti e sacrifici, sì da indurre il dio a mostrarsi benigno nei confronti del suo popolo. Adesso l’esito di queste preghiere, anziché essere addebitato alla responsabilità del sacerdote, viene fatto dipendere dal comportamento generale dei fedeli, che, se non corretto, può incorrere nella giusta punizione divina. Insomma, se le cose vanno male è a causa del peccato, il sacerdote non c’entra.
La nuova teologia finisce per condizionare tutta la politica del dominio, che adesso è centrata sui doveri dei clan e delle famiglie nei confronti del loro dio per poter meritare un’adeguata retribuzione. Ebbene, i doveri dei fedeli riflettono la particolare concezione teologica antropomorfa dominante nel Neolitico. “Poiché gli uomini hanno una casa, anche gli dèi devono avere una casa; poiché l’uomo ha terra, bestiame e servi, anche gli dèi devono avere le stesse cose. Per questo nasce il tempio…” (ABDALLAH, SORGO 2001: 28). L’uomo deve onorare il suo dio e in cambio avrà fortuna, altrimenti potrà essere colpito da ogni genere di disgrazie, o personalmente o indirettamente, attraverso altri membri della sua famiglia. Ancora non si crede nell’aldilà, perciò si ritiene che la giustizia divina debba realizzarsi sulla terra. Se vorrà avere ciò che desidera, il fedele dovrà onorare il suo dio e osservare la sua volontà, che però è nota solo al sacerdote-re. Insomma, se da un lato si afferma che il capo e padrone della città è il dio, in realtà, il vero capo e padrone è il vice-dio, ovvero il sacerdote-re. Da questo momento, il futuro del dominio è fatto dipendere dall’indissolubile connubio dio-popolo, secondo una logica che, di fatto, deresponsabilizza anche la divinità. Alla fine, l’unico vero responsabile degli eventi rimane il popolo e da esso verrà fatto dipendere il futuro non solo del dominio, ma anche quello del sacerdote e dello stesso dio. Così, se una città si impone su un’altra, il suo dio e il suo sacerdote-re diventano autorità supreme, quando una città soccombe, il suo sacerdote-re rischia la vita e il suo dio un declassamento.
Certo, non tutti sono disposti ad accettare la nuova società, con la sua organizzazione e le sue imposizioni fiscali. Molti ancora sognano il clan come massimo ideale di vita e offrono a malincuore una parte dei propri beni al dio, ben sapendo che quei beni verranno usati per pagare le guardie e mantenere un apparato amministrativo, che non approvano. Ma adesso il sacerdote dispone della forza necessaria a convincere i recalcitranti e non esita ad usarla: non è difficile domare i focolai di resistenza interna; più difficile è difendersi dai pericoli che provengono dagli altri domini. Scontri fra domini divengono sempre più frequenti e nessuno può sentirsi al sicuro nei propri confini. Tende e capanne non costituiscono un riparo affidabile né per le persone né per i loro averi. Nasce allora l’esigenza di costruire strutture in pietra, sempre più grandi e solide, possibilmente fortificate con fossati e palizzate, dove custodire almeno i beni di maggior valore. Ciò vale in particolare per il tempio, che continua a rappresentare una forte tentazione per molti, ma non c’è servizio di sorveglianza o fortificazione che una piccola squadra di banditi ben organizzati non possa eludere con relativa facilità. Nel tentativo di risolvere questo annoso problema, alcuni sacerdoti, appellandosi ad un presunto comando divino, fanno innalzare un robusto muro di pietra tutt’intorno al tempio e, per renderlo più sicuro, prevedono un’unica porta di accesso, a guardia della quale pongono delle sentinelle.
La figura del condottiero
Una delle conseguenze della fortificazione del tempio è che i predoni prendono di mira obiettivi più semplici e devastano le capanne degli artigiani e dei contadini. Ora, quando è l’intero villaggio a sentirsi minacciato e si comincia a diffondere l’esigenza di migliorare ulteriormente l’organizzazione sociale ed estendere le strutture di difesa. Inizialmente pare naturale affidare questi compiti al sacerdote, il quale, a seconda anche della propria personalità, potrà cercare la pace o accettare la guerra. Ma, in alcuni casi, specie quando il pericolo è troppo grande e/o il sacerdote non si rileva all’altezza, ci si vede costretti a ricorrere ad un uomo d’armi, un vero condottiero.
In genere si avverte l’esigenza di un condottiero quando fra due domini di pari potenza si instauri un clima di tensione tale che non si scorgano soluzioni diverse dallo scontro armato. Ora, dal momento che abitualmente questi scontri vengono condotti all’ultimo sangue e poiché la posta in gioco è, dunque, la stessa sopravvivenza del popolo, è naturale che è interesse di tutti che le operazioni militari vengano affidate all’uomo che si ritenga sia dotato delle qualità adatte ad una simile impresa. Il fatto è che, il più delle volte, le persone ritenute dotate delle qualità necessarie per ricoprire con successo quel ruolo e animate dalla volontà di non farsi da parte sono più di una, si viene a determinare il rischio della formazione di fazioni e, dunque, di una divisione interna, proprio mentre il nemico sta per sferrare il suo attacco, il che sarebbe letale per la comunità e non può essere tollerato. Peraltro, anche se ci fosse un unico candidato condottiero e questi riuscisse a farsi riconoscere come tale, egli non potrebbe contare sulla sicurezza della sua posizione di comando. L’unico in grado di risolvere il problema della stabilità della posizione di comando è, infatti, il sacerdote, il quale non può non essere interpellato. E cosa fa il sacerdote quando viene interpellato? In genere, dopo essersi consultato con gli anziani e valutato lo stato degli equilibri di potere fra le varie famiglie, comunica la volontà del dio: il dio ha deciso che a guidare l’esercito della tribù sarà Pinco Pallino. Nessuno oserà sfidare la volontà del dio e Pinco Pallino assumerà i poteri col plauso di tutti, non prima però di aver ringraziato pubblicamente il dio, che lo ha prescelto, e di promettere il massimo rispetto per il suo ministro, il sacerdote.
Di norma, il condottiero dipende dal sacerdote, al quale deve rendere conto e dal quale può essere rimosso e sostituito. Solitamente, cessato il pericolo, il condottiero rientra nell’ombra e il sacerdote riprende il posto di comando, così che tutto ritorna come prima. Può accadere tuttavia che il successo militare conferisca al condottiero un prestigio e un’autorità personali autonomi, e ciò può finire per creare un conflitto con l’autorità sacerdotale. Può anche accadere che, grazie alle sue imprese, il condottiero venga riconosciuto come figlio prediletto del dio e assuma le funzioni sacerdotali, esautorando la figura del sacerdote in carica e divenendo egli capo assoluto del dominio. In ogni caso, con la discesa in campo del condottiero, il sacerdote deve fare i conti col temibile concorrente e viene a perdere la sua unicità e inamovibilità.
Col moltiplicarsi degli scontri armati fra dominî (o fra dominî e tribù), la figura del condottiero acquista una sempre maggiore importanza fino ad assumere un ruolo sociale fondamentale, quello del re-guerriero, e, da questo momento, un dominio può essere governato o da un sacerdote con funzioni anche di re-guerriero, o da un re-guerriero con funzioni anche di sacerdote, oppure da due figure distinte di re-guerriero e sacerdote, delle quali l’una tende a sovrastare l’altra. In ogni caso, dunque, la città dipende almeno da un capo. Se il capo è di debole personalità, le famiglie più potenti prendono a farsi lotta per conquistare il potere, la città si indebolisce e diviene facile preda di qualsiasi nemico decentemente organizzato che l’attacchi. Se invece il capo è forte e ambizioso, egli tiene in pugno i suoi collaboratori e, in qualche caso, orienta le loro ambizioni verso obiettivi esterni.
La crescente necessità di ricorrere alla guerra favorisce l’ascesa dei capibanda che, se prima seminavano il terrore all’interno del regno ed erano malvisti, adesso vengono arruolati dal re e impiegati a danno di popolazioni straniere, in cambio del riconoscimento sociale e di lauti compensi. La disponibilità di risorse rende ora possibile l’allestimento di un esercito permanente e, con una tale forza, si può praticare, oltre alla guerra di conquista, anche la razzia sistematica. Un esercito, infatti, costa parecchio e mantenerlo in ozio è antieconomico. La società va dunque trasformandosi: il re-sacerdote diventa condottiero, i capibanda acquistano uno status sociale elevato e la guerra finisce di essere semplicemente un mezzo per procurarsi il necessario per la sussistenza e diviene uno strumento per conquistare potere e ricchezze.
Dal sacerdote-re al re
Cessato il pericolo, il condottiero licenzia il grosso delle truppe, che non serve più, ed egli stesso si ritira a vita privata e riprende le sue precedenti attività. Tuttavia, se il quadro politico è complesso, se cioè i centri di potere sono numerosi e lottano per la leadership o se l’unico modo per sopravvivere è quello di mantenersi sufficientemente forti da incutere paura ad eventuali nemici esterni, e tale è, in molti casi, la situazione nella regione della Fertile Mezzaluna intorno a 6 Kyr fa, si comincia ad avvertire l’esigenza di un condottiero stabile. Ora, un condottiero può conservare la sua posizione in due modi: o attraverso il terrore, e in questo caso, dovrà curare molto la sua forza militare e la fedeltà dei suoi sottoposti, ma questo, oltre a richiedere un notevole dispendio di energie, è molto rischioso; oppure attraverso una legittimazione inderogabile, che può venire solo da un dio. Quest’ultima opzione è quella più ricercata, a causa degli indubbi vantaggi che comporta: non richiede spargimento di sangue ed è meno dispendiosa e più sicura. In pratica, essa si traduce in un’investitura ufficiale e solenne da parte del sacerdote, che equivale ad una consacrazione regale del condottiero per volere divino. Da questo momento, il prescelto potrà svolgere le funzioni di capo militare permanente, o re. Resta inteso che il re dovrà dimostrare con le opere (vittorie militari, benessere delle famiglie) che continua a godere dei favori del dio, altrimenti il suo potere rischierebbe di essere messo in discussione.
La società di dominio
Il dominio costituisce la struttura sociale più avanzata del Neolitico. Esso si sviluppa intorno al tempio, che è il vero centro del potere amministrativo, religioso e militare. Il capo del dominio, sia esso sacerdote o re, non è considerato alla stregua di tutti gli altri, ma non è nemmeno un dio. Egli è l’uomo più vicino al dio, il tramite unico tra il dio e il suo popolo, una sorta di superuomo o semidio. La sua volontà è la volontà del dio e quel che lui comanda è comando divino e, come tale, deve essere osservato senza esitazione e senza chiedersi il perché. Si tratta, dunque, di un potere assoluto. Il capo ha il potere di distribuire le risorse e assegnare le cariche pubbliche a sua discrezione. Ora, soprattutto quando le riserve scarseggiano, il capo tende a favorire le famiglie a lui più vicine, quelle dei funzionari e dei guerrieri, mentre tende a trascurare tutte le altre. Questa tendenza si attenua solo quando le cose vanno bene, ma senza mai cessare del tutto. Chi ha il potere, insomma, tende a fare i propri interessi e così può essere tentato di utilizzare i beni del dio, che sono beni di tutti, a proprio esclusivo vantaggio e ad esclusione di altri. È la cleptocrazia.
Nel dominio è già ben delineata una piramide sociale, al vertice della quale sta il dio e subito dopo il capo, seguito da una ristretta cerchia di notabili, funzionari e ufficiali dell’esercito, che sono i più fedeli servitori del capo. Nei gradini inferiori della piramide troviamo i soldati semplici, i contadini, i pastori e gli artigiani. Tutti sono interdipendenti, ma nessuno è autosufficiente: il contadino ha perso l’abilità di modellare le pietre e di costruire utensili e armi e perciò deve scambiare i prodotti della terra con quelli dell’artigiano, allo stesso modo in cui il conciatore di pelli o il costruttore di asce devono barattare i loro prodotti con quelli del contadino, se vogliono sopravvivere. Gli unici che non producono (ossia il capo e i suoi funzionari) possono vivere per così dire mantenuti dal dio, utilizzando cioè i beni sacri del tempio, ossia il tributo della popolazione.
Così, nella nuova società, molte famiglie si vanno specializzando, chi nella lavorazione del legno o della pietra, chi nella produzione di vasi o utensili, chi nella concia delle pelli o nell’edilizia, chi nell’arte militare (guerrieri) chi nell’arte burocratica (funzionari), e tutti in pratica vivono sulle spalle degli agricoltori-allevatori, che rimangono i soli a produrre le risorse alimentari per tutti e, proprio per questo, sono esposti a pericoli che incombono da ogni parte. La famiglia contadina è in prevalenza di tipo monoandrico-poliginica, formata mediamente da un uomo e tre donne e dai relativi figli, in tutto 10-20 persone, che controllano un’area di 3-400 ettari e producono cibo in eccesso rispetto ai loro bisogni.
Per comprendere bene questa nuova realtà, immaginiamo che il nostro dominio si estenda su una superficie di 500 kmq e ospiti una popolazione di 2000 persone, di cui la metà risiede nel villaggio, l’altra metà è dispersa nel territorio. Il centro del villaggio è delimitato da una robusta e alta palizzata di legno che circonda il tempio-palazzo e altre abitazioni, dove vivono il sacerdote-re, i suoi funzionari, le sue guardie, alcuni artigiani e il personale di servizio, in tutto 300 persone. Le capanne della periferia ospitano il resto della popolazione, quasi tutti contadini, e pochi artigiani.
La questione del potere
Una delle pratiche più odiose e dure da sopportare per i contadini è il versamento di una parte dei propri beni per mantenere un sempre più numeroso stuolo di «parassiti», e il personaggio sul quale essi addossano le maggiori responsabilità è certamente il sacerdote. È lui, in fondo, che ha introdotto la consuetudine dell’offerta al dio, che adesso si sta rivelando essere un tributo a favore di una classe sociale inutile e ingorda, che controlla grandi quantità di beni prodotti da altri e se ne serve per il proprio vantaggio, senza nulla poter offrire in cambio, nemmeno quella protezione dai predoni, che è sentita dai contadini come un bisogno primario. Il malcontento è tale che il dominio rischia di implodere già nell’atto stesso del suo costituirsi.
Perché mai un individuo dovrebbe rinunciare alla propria libertà e indipendenza e sottomettersi al volere di un altro? Chi dovrebbe essere designato capo e da chi? E poi, dovrebbe essere capo a vita o per un periodo determinato? I suoi poteri dovrebbero essere illimitati, o no? E se no, chi dovrebbe controllarli? Nel Neolitico nessuno si pone ancora in modo esplicito simili domande e, tuttavia, con l’affermazione del dominio, si apre, di fatto, la questione del potere, che rimane aperta anche ai nostri giorni.
I capi ambiziosi dei domini competono fra loro per il primato nella propria regione e cercano di sottomettere gli altri dominî, mentre le tribù nomadi possono colpire in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento, a piccoli gruppi o in massa. “Allorché un gruppo è in grado di sopraffare un altro grazie alla supremazia numerica, ad una superiore forma di organizzazione, all’affermarsi di un grande capo o allo sviluppo di tecniche più efficaci negli armamenti o nella tattica, in quel caso la guerra si trasforma in conquista” (ROBINSON 1971: 55-6). I perdenti che non riescono a fuggire o vengono massacrati oppure viene loro concesso di rimanere al loro posto, divenendo vassalli dei vincitori, ai quali devono versare un tributo. Per quelli che riescono a fuggire, se non vengono aggrediti e uccisi da qualche banda di nomadi, non rimane altro che diventare nomadi essi stessi. I contadini invece sono alla mercè di tutti. Per essi l’unica prospettiva è quella di lavorare e mantenere sia la classe dominante del dominio, sia i predoni: “se non lo facessero, sarebbero attaccati e massacrati dai signori di un’altra zona” (ROBINSON 1971: 55). È così che “si è forse formata nel tardo Neolitico l’istituzione della monarchia” (POPITZ 1990: 57).
8. Città e Stati (8 - 5.5 mila anni fa)
15 anni fa
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