La famiglia come mezzo di sopravvivenza
Non tutte le specie animali provvedono alla cura della prole per mezzo della famiglia. Presso la tartaruga marina, ad esempio, la schiusa delle uova avviene in assenza dei genitori e le piccole tartarughe appena nate devono provvedere da sole alle proprie necessità, con conseguenze disastrose. Infatti, non appena le centinaia di migliaia di uova depositate sotto la sabbia si schiudono, le piccole tartarughe devono affrettarsi a guadagnare il mare, se vogliono avere qualche speranza di sopravvivere, ma la maggior parte cade vittima dei predatori prima che riesca a raggiungere le onde. La sopravvivenza di questi animali è legata all’enorme numero delle uova e alla contemporaneità della loro schiusa. Il risultato è che più del novanta per cento dei nati non sopravvive ai primi pericoli, e coloro che si salvano non sono necessariamente i più forti, ma spesso solo i più fortunati. Qualcosa di simile avviene nelle aringhe e in tante altre specie, che affidano la propria sopravvivenza più al numero e al caso che alle cure parentali.
Al polo opposto di questo «individualismo estremo» c’è un «gregarismo estremo», che è il modello delle formiche, delle termiti, delle api e di altri insetti, che vivono ammassati come se fossero un unico organismo. È inutile cercare l’individuo in queste masse indistinte. I dati a nostra disposizione mostrano che “la storia naturale dell’evoluzione è andata verso l’individualità, cioè da colonie e gruppi altamente specializzati, tanto da fare di ogni singolo una parte dell’organismo sociale, a gruppi disomogenei formati da ben distinti individui” (ANDREOLI 1984: 81-2). Bene, la strada prescelta dai mammiferi è una via di mezzo. Essa è fondata sì sull’individuo, ma su un individuo sociale.
Nel mondo dei mammiferi, dove la famiglia si è affermata come il principale strumento di sopravvivenza dei singoli individui, di solito, una coppia si riproduce solo dopo che è riuscita a conquistare un territorio abbastanza esteso e ricco da fornire le risorse necessarie ad una famiglia. I genitori si prendono cura della prole e provvedono al suo nutrimento, alla sua difesa e alla sua «educazione», ma solo per un periodo limitato, e cioè fino a quando, essendo in grado di cavarsela da soli, i figli dovranno allontanarsi e amministrarsi da sé. Da quel momento il legame parentale si spezza e genitori e figli diventano estranei, così che la funzione della famiglia è finita. Rispetto alle specie senza famiglia, che si disinteressano dei propri piccoli e li abbandonano al loro destino, il fatto che due genitori collaborino nell’accudire alla prole rappresenta certamente una nuova strategia di sopravvivenza, che, anche se non necessariamente migliore, certamente dev’essere considerata molto più plastica e versatile rispetto ad altre.
C’è da credere, pertanto, che la famiglia si sia affermata come strumento efficace di soddisfazione dei bisogni degli individui. “I gruppi si formano quando un certo numero di individui che hanno finalità comuni si rendono conto che non possono raggiungere i loro obiettivi attraverso degli sforzi soltanto individuali” (KINCH 1978: 101). La famiglia può essere considerata il più piccolo gruppo in grado di rispondere efficacemente ai bisogni dell’individuo. Quello che fa la famiglia all’inizio dei tempi lo faranno anche i gruppi più estesi che si affermeranno nei tempi successivi. Anzi, questi gruppi estesi si affermeranno nella misura in cui riusciranno a dare risposte migliori rispetto alla famiglia. “Meglio il gruppo può provvedere ai bisogni dell’individuo e più esso sarà attraente per lui” (KINCH 1978: 115). Se così non fosse, l’uomo sarebbe continuato a vivere in piccoli nuclei esclusivamente familiari.
La prima preoccupazione degli aspiranti genitori, prima ancora di accoppiarsi, è quella di conquistare un «territorio» dotato delle risorse necessarie per sé e per la prole. Solo se una coppia riesce a trovare un territorio adeguato ai propri bisogni può sperare in un successo riproduttivo, ma, poiché i territori non sono infiniti, ne consegue che non tutti gli animali possono trovare quello che cercano. Da ciò nasce la competizione, che vede vincitori, generalmente, gli individui «migliori». È un passo avanti rispetto alla strategia delle tartarughe, perché, mentre questa comporta il sacrificio della stragrande maggioranza dei nati e la sopravvivenza casuale della minoranza, la famiglia richiede una selezione preliminare degli individui destinati a riprodursi e assicura la sopravvivenza di un maggior numero di nati. L’invenzione della famiglia dev’essere, dunque, considerata vantaggiosa sia per la specie che per l’individuo. “Tutta la socialità di livello superiore – dice Eibl-Eibesfeldt – si fonda su questa invenzione chiave” (1995: 767).
Nella specie ominide, la famiglia ha assunto un ruolo particolarmente importante perché ha dovuto adattarsi al progressivo allungamento del periodo infantile. Se occorrono cinque anni perché un piccolo diventi capace di vita autonoma, per tutto quel tempo la madre dovrà occuparsi di lui, stargli vicino, nutrirlo, difenderlo dai pericoli ed educarlo. Se poi i figli sono tanti, ne consegue che le cure parentali impegneranno quasi tutto il tempo della madre. Si può ben comprendere allora come la famiglia finisca per assorbire gran parte, per non dire tutta, la vita della femmina dell’ominide, obbligandola a stabilire rapporti sociali di straordinaria stabilità e profondità.
La gracilità dell’individuo
Perché una specie possa perpetuarsi nel tempo è necessario che, almeno per una parte degli individui, le probabilità di soddisfare i propri bisogni risultino superiori alle probabilità di soccombere. È necessario cioè che almeno alcuni individui siano in grado di controllare un territorio, di procurarsi il cibo necessario, di difendersi dai nemici e di riprodursi. Ora, se ci chiediamo con quali mezzi il nostro più antico progenitore, l’ominide, sia stato in grado di rispondere con successo ai propri bisogni, rimaniamo perplessi di fronte alla sua relativa gracilità. Dai resti fossili sappiamo che somigliava più allo scimpanzé che all’uomo. Il suo fisico non eccelleva in nulla: non era l’animale più veloce, né il più forte; nessuno dei suoi sensi era da primato; non disponeva di armi di difesa e di offesa tali da reggere il confronto con quelle di altri animali; non aveva corna come il bufalo, né una grande stazza come l’elefante, né una vista acuta come quella del falco, un udito raffinato come quello di un delfino o un olfatto formidabile come quello di un cane; non aveva una pelle coriacea come quella del rinoceronte, né gli artigli di una tigre, le mascelle di un leone o il veleno di un serpente; non sapeva mimetizzarsi come un camaleonte, né vivere in acqua come un pesce, o volare come un uccello. Per di più doveva apprendere individualmente tutti i comportamenti utili alla sopravvivenza e per questo la sua infanzia era eccezionalmente lunga, il che costituiva un ulteriore fattore di debolezza nei confronti di altri animali che erano in grado di badare a se stessi sin dalla nascita e di esibire moduli comportamentali già fissati, una volta per tutte, nei cromosomi. Come ha potuto affermarsi un simile animale? Per molto tempo le sue chances di sopravvivenza rimasero legate alla famiglia. Soffermiamoci allora a considerare le condizioni che resero possibile il gruppo familiare e i problemi che esso si trovò ad affrontare nei primi tre milioni di anni del Paleolitico Superiore.
La famiglia come entità biologica
Sotto un certo aspetto, la famiglia può essere concepita come uno strumento biologico selezionato dalla natura per consentire la riproduzione e la sopravvivenza degli individui. Lo strumento è basato sull’attrazione sessuale della coppia e quella madre-figlio, ma non funziona in modo automatico e infallibile: perché possa funzionare in modo ottimale, richiede la collaborazione delle figure genitoriali. L’unione di coppia, insomma, dev’essere costruita giorno per giorno dalla volontà congiunta di entrambi i genitori e, quando questa manca, dalla volontà del membro più forte, che generalmente è il maschio. Così, se da una parte la madre è fondamentale per la sopravvivenza dei piccoli, alla fine la figura da cui dipende il destino dell’intera famiglia risulta essere quella maschile in virtà della sua maggiore forza. Per quanto precaria nei suoi equilibri interni, la famiglia consente di costituire la più semplice forma di società naturale possibile. Ai fini naturali non fa differenza se i genitori siano costituiti da una semplice coppia o da più figure maschili o femminili, né importa che la loro unione sia formalizzata da un contratto legale o resa indissolubile da un sacramento: quello che importa è che qualcuno generi dei figli e questi possano in qualche modo sopravvivere, almeno fino a quando non potranno riprodursi a loro volta.
La famiglia è un vero capolavoro strategico, capace di risolvere un certo numero di delicati problemi con altrettante geniali soluzioni ed elevare il tutto in un mirabile equilibrio di funzionalità. Il problema di fondo più rilevante è certamente quello relativo alla differenziazione sessuale. Come far sì che due individui, per natura diffidenti e egoisti, e per di più estranei, si accoppino, cooperino e si prendano cura della prole? La soluzione del problema risiede negli ormoni, piccole sostanze chimiche prodotte da apposite ghiandole, che sono capaci di stimolare il sistema nervoso e indurre l’individuo a esibire un insieme di comportamenti finalizzati alla riproduzione. Gli ormoni generano nell’individuo il desiderio sessuale e lo muovono alla ricerca di un partner con cui accoppiarsi. Come osserva Harris, “il sesso è sia un impulso sia un desiderio” (2002: 129), che muove due individui ad unirsi in coppia. Non è necessario supporre che la coppia sia consapevole delle conseguenze generative del coito, perché la forza di attrazione sessuale unisce di per sé. Sotto questo aspetto la famiglia può essere intesa come un accordo ai fini procreativi fra un maschio e una femmina, che, pur essendo del tutto estranei sotto il profilo genetico, iniziano a cooperare e accudiscono i propri piccoli per un lungo periodo. È davvero un miracolo della natura.
Il sesso
Benché il sesso sia il cemento che rende possibile la costituzione della più elementare forma di società fra estranei, che è la coppia, non è necessario pensare ad un rapporto esclusivo e fedele. È possibile, infatti, immaginare la convivenza, nello stesso territorio, di diversi maschi e diverse femmine, che stabiliscono fra loro rapporti variabili: un maschio può avere rapporti con più femmine e una femmina con più maschi. Quello che conta è che, al di là dei suoi effetti generativi, “il rapporto sessuale appare come un fattore socializzante di primaria importanza presso tutti i mammiferi” (ANATI 1992: 53).
La famiglia come entità culturale
Con le guerre di conquista e l’affermazione della proprietà privata si renderà necessaria la legalizzazione della famiglia e quindi la sua elevazione a soggetto giuridico, così che il patrimonio possa essere trasmesso in eredità fra coloro che, secondo la legge, fanno parte di quel nucleo familiare. Se non ci fosse la proprietà privata non ci sarebbe bisogno di formalizzare la famiglia. Sotto il profilo legale, si chiama famiglia i soggetti che la legge riconosce strettamente imparentati e, in quanto tali, vincolati da diritti/doveri reciprochi, anche questi regolati dalla legge. L’evoluzione culturale contribuirà a dare alla famiglia forme e significati diversi, fino a stravolgere le sue connotazioni naturali. Così, avremo famiglie composte da una sola persona, da una coppia eterosessuale con figli nati da seme di donatori o in provetta, da una coppia di lesbiche o di gay o da un solo adulto con figli adottivi, da piccole comunità senza legami di sangue (kibbutz, confraternita, sodalizio), che si conducono in modo «familiare», e via dicendo. Sotto il profilo culturale, la famiglia diventa un gruppo di persone di entrambi i sessi, che si riconoscono strettamente imparentati o affini, anche se non lo sono di fatto.
La parentela, così come oggi la intendiamo, è un fatto tanto biologico che un culturale: ci si può sentire “«fratelli» perché si appartiene allo stesso clan, perché si è vissuti nello stesso ambiente, perché si parla la stessa lingua o si condividono gli stessi valori o si lotta contro un nemico comune, e altro ancora. Oggi sono talmente tante le variabili che intervengono nella definizione di famiglia, che qualcuno ha potuto scrivere: “Studiando la famiglia si deve tener presente che si tratta di un concetto, di una creazione della mente e della cultura dell’uomo, più che di un’entità concreta” (CASEY 1999: 207). E, in effetti, l’aspetto della famiglia varia ampiamente nelle diverse culture: si va dalla forma nucleare a quella estesa, dalla monogamica alla poligamica, dalla patrilineare alla patrilineare, dalla monoginica alla poliginica, dalla monoandrica alla poliandrica, e via dicendo.
Anche se le famiglie non sono uguali, tutte raggiungono il medesimo scopo, che è quello della riproduzione. Ora, se ci limitiamo a considerare la famiglia solo uno strumento di perpetuazione della specie, allora non possiamo vedere in essa altro che una coppia insieme alla rispettiva prole, l’area in cui vengono soddisfatti i bisogni primari dell’uomo e della donna, “tutti quei bisogni che l’uomo e la donna condividono con i primati” (ACQUAVIVA 1981: 5). Ed è così fin dai tempi dell’australopiteco.
Grazie alla cooperazione dei genitori, la durata dell’infanzia si può allungare a piacimento, sì da dare ampio spazio all’apprendimento e consentire un primo salto di qualità: un animale che apprende è più adattabile rispetto ad un altro che è geneticamente determinato. Una seconda conseguenza della famiglia è il mescolamento genetico, ossia la fine del dominio assoluto non solo del singolo gene ma anche di quel singolare pool genico che costituisce l’individuo puro e semplice. Il nuovo individuo, infatti, risulta dal mescolamento casuale di due pool genici, perciò è sempre diverso e parzialmente imprevedibile e, anche se, abitualmente, l’opera educativa dei genitori tende a conformarlo alla cultura del gruppo, grazie alla sua intelligenza, egli può interpretare il mondo secondo una sua singolare logica e contestare i valori del gruppo e della famiglia che lo ha generato. Così può avvenire che un soggetto possa perfino odiare un genitore o un fratello, e rifiutare la propria famiglia, oppure rimanere legato ad essa in spirito di gratitudine o nonostante tutto. In altri termini, nata come entità biologica, la famiglia diviene anche un crogiolo di relazioni e sentimenti, un luogo di scambio di favori e servizi, ma anche di rivendicazioni e pretese, in due parole un’entità culturale. Nella famiglia, natura e cultura si incontrano e si scontrano, con esiti niente affatto scontati.
Le conseguenze della famiglia
La famiglia modifica sensibilmente il comportamento degli individui, per ragioni innanzitutto biologiche, su cui conviene indugiare brevemente. Nella riproduzione asessuata un individuo può riprodurre se stesso in modo da condividere col figlio il 100% dei geni, in quella sessuata, invece, “ai figli passano soltanto la metà di quei geni che tanto sono stati utili nella vita di chi ne era portatore. L’altra metà del patrimonio genetico della prole viene fornito da un altro animale. I figli sono perciò dei semiestranei, non sono carne della carne del genitore ma lo sono solo a metà, perché il resto arriva da un individuo completamente diverso” (DAWKINS 1992: 165-6). Abbiamo visto cosa ha dovuto fare la natura per evitare un pericoloso stato di guerra di tutti contro tutti: ha creato delle forze tanto tenaci da evitare che i genitori vedessero i figli come competitori o come semplice cibo, e indurli a prendersene amorevole cura. Ora alcuni autorevoli biologi contemporanei tendono a spiegare il comportamento altruistico in base al grado di parentela tra i soggetti che interagiscono, cioè in base alla percentuale dei geni condivisi: tanto più è probabile che A aiuti B, e viceversa, quanto più geni essi hanno in comune. In un certo senso è come se si mettesse al primo posto il gene e si relegasse l’individuo al ruolo di suo servitore: è il gene che decide il comportamento dell’individuo, il quale semplicemente esegue.
Per quanto suggestiva possa sembrare, questa teoria non è suffragata da prove scientifiche. In base alla teoria genica, infatti, non ci dovrebbero essere differenze nei comportamenti tra madre e figlio, padre e figlio, fratello e fratello, dal momento che tutte queste coppie hanno in comune il 50% dei geni. E invece così non è. Sappiamo, infatti, che tra madre e figlio si stabilisce il massimo dell’attaccamento, mentre i fratelli si comportano prevalentemente come estranei, e ad un livello intermedio si collocano le relazioni fra padre e figlio e quelli tra padre e madre. Ne consegue che le strategie comportamentali non riguardano i geni, bensì gli individui, che, tra l’altro, sono gli unici adattabili. “Gli organismi possono adattarsi e si dicono omeostatici, mentre i geni non sono omeostatici perché non possono adattarsi” (SMITH 1985: 73). In prima linea c’è sempre l’individuo: è lui che lotta, è lui che si riproduce, è lui che muore. La sopravvivenza, la riproduzione e l’estinzione del gene sono solo conseguenze. Ora, gli individui obbediscono alla legge del più forte, che è la prima e fondamentale legge di natura. A questa suprema legge la famiglia oppone due correttivi: il legame sessuale e quello parentale, che è essenzialmente un legame di prossimità. Sono questi due legami che rendono possibile il rapporto solidale della coppia e la cura della prole.
La famiglia è innanzitutto il luogo dove ci si prende cura dei piccoli e, in quanto tale, essa svolge una finzione strumentale per la sopravvivenza degli individui. “La necessità di proteggere, nutrite, accudire e istruire una prole tanto inetta ha spinto i nostri antenati verso un’organizzazione familiare e sociale sempre più elaborata e affidabile” (BONCINELLI 2000: 154). La famiglia svolge anche un’importante funzione di selezione. Infatti, a differenza delle specie che non conoscono la famiglia, dove assistiamo al sacrificio della stragrande maggioranza dei nati e la sopravvivenza casuale di una sparuta minoranza, la «strategia» familiare prevede una selezione preliminare degli individui destinati a riprodursi e assicura la sopravvivenza di un maggior numero di nati, che sono abitualmente i più competitivi.
Per molto tempo la strategia familiare non ha mostrato alcuna significativa superiorità rispetto ad altre strategie e, fino ad un milione di anni fa, gli ominidi hanno vissuto in piccoli gruppi familiari relativamente isolati e in modo non sostanzialmente dissimile rispetto ad altri mammiferi evoluti. Ma con una differenza: essendo dotati di un apparato fonetico più sofisticato e di un cervello più complesso, essi avevano ancora un ampio margine di miglioramento. In particolare, sono stati i processi di socializzazione e di cooperazione ad evolversi, perché davano dei vantaggi ai nostri progenitori in termini di sopravvivenza individuale (MUNI 1997: 105-9). Questa evoluzione è avvenuta per gradi, ma il suo elemento propulsore è stato certamente la famiglia: se non ci fosse stata la famiglia, gli ominidi non sarebbero stati in grado di costituire gruppi sociali sempre più ampi e complessi. “Tutta la socialità di livello superiore – come osserva Eibl-Eibesfeldt – si fonda su questa invenzione chiave” (1995: 767). La famiglia, dunque, non rappresenta un traguardo ultimo, ma solo l’inizio di un lungo cammino.
La famiglia australopiteca
Com’era esattamente la famiglia tra 4 e 1,5 Myr fa? Era forse formata da una coppia stabile con i propri figli, o era solo la madre a provvedere ai piccoli, mentre il padre si allontanava per la caccia? Era formata da diverse femmine e diversi maschi adulti, in qualche modo organizzati, oppure c’era un unico maschio adulto con più femmine adulte o, ancora, un’unica femmina con più maschi? Non lo sappiamo, ma poco importa. A quell’epoca, a causa dell’elevata mortalità e dell’abbondanza degli spazi, c’è da pensare che la densità demografica fosse talmente scarsa che una famiglia poteva vivere relativamente lontana dalle altre, mentre il nomadismo era la regola.
La nostra preistoria inizia in un remoto angolo della savana africana, dove una giovane «coppia» di australopitechi, che chiamiamo «alfa», sta affrontando la sua prima esperienza riproduttiva. La specie, che si è appena affermata, comprende un esiguo numero di esemplari, che possono muoversi a piacimento in spazi praticamente illimitati, benché zeppi di insidie di ogni tipo. Fino a quel momento, le coppie pre-ominidi si univano solo nel periodo degli amori e rimanevano coese solo per pochi mesi, il tempo minimo perché i propri piccoli fossero in grado di cavarsela da soli. Per tutto il resto della propria esistenza, gli individui conducevano una vita solitaria e pensavano solo a se stessi, e, in caso di competizione per una certa risorsa, i loro rapporti erano regolati dalla legge del più forte.
I nostri due partner ignorano l’arrivo di una prole e non hanno alcun programma sulla loro vita futura. Essi vivono alla giornata attimo per attimo con l’unico scopo di reperire il cibo ed evitare i pericoli, rappresentati soprattutto, ma non solo, dai predatori. Ciascuno esplora autonomamente il territorio alla ricerca di cibo, che è rappresentato da una dieta rigidamente vegetariana (radici, erbe, bacche e frutti), al minimo segnale di pericolo si dà alla fuga o si nasconde e, quando la sera lo sorprende, ovunque si trovi, cerca un luogo riparato e vi trascorre la notte. I due però non si allontanano troppo, perché l’impulso sessuale li spinge a cercarsi e devono potersi trovare con facilità. Nessun luogo può offrire risorse in modo illimitato e costante e anche i territori più ricchi sono esposti al rischio di calamità naturali, che ne limitano temporaneamente la produttività. Le decisioni di un individuo di fermarsi stabilmente in un luogo oppure di spostarsi alla ricerca di un luogo migliore sono legate alla disponibilità di risorse: finché c’è abbondanza ci si ferma, in caso di carenza ci si muove, questa è la regola.
Quando un bel giorno nasce un piccolo, gli ormoni agiscono sulla madre, rendendola estremamente sensibile nei suoi confronti e inducendola a prendersi cura di lui, a proteggerlo e a nutrirlo. Da parte sua, anche il piccolo è spinto dagli ormoni a cercare i capezzoli della madre e a poppare, e questo comportamento, che è del tutto automatico e istintivo, ha l’effetto di rinforzare il reciproco attaccamento tra madre e figlio e di prolungare il periodo delle cure parentali. Ma c’è un problema: una madre che allatta si vede diminuire la sua libertà di movimento e quindi la sua capacità di reperire cibo e di proteggere efficacemente il piccolo, proprio in un periodo in cui il fabbisogno di cibo e i pericoli sono aumentati. In caso di attacco da parte di un predatore, la stessa madre è esposta a maggiori rischi, perché non può fuggire, come fa di solito, ma deve affrontare l’aggressore, sperando di indurlo a desistere. Da sola, la madre non sarebbe in grado di assolvere con successo la sua funzione riproduttiva e deve, perciò, poter contare sul contributo del partner, il quale, però non ha le stesse spinte ormonali della madre a favore dei piccoli. L’unico stimolo, che potrebbe indurlo a stare vicino alla sua compagna, potrebbe essere quello sessuale, ma adesso la femmina, essendo tutta concentrata sul piccolo, mostra una certa aggressività e non sembra disposta ad accoppiarsi. La famiglia è in pericolo e occorre fare qualcosa per evitare l’estinzione della specie. In questo caso la natura riesce a trovare la soluzione, che consiste in un lieve ritocco degli ormoni del padre, sufficiente a renderlo più sensibile nei confronti della propria famiglia e a trasformarlo in partner premuroso e amorevole, disposto a dividere il cibo con la compagna e affiancarla di fronte alla minaccia di un predatore. Ma questo richiederà del tempo. Che forma avesse la famiglia australopiteco non lo sappiamo, ma è verosimile che essa somigliasse a quella delle altre scimmie antropomorfe, ovvero che fosse costituita da un maschio dominante, 3-4 femmine adulte e una ventina di piccoli, senza fissa dimora.
Nonostante tutto la famiglia rimane una struttura assai fragile, facilmente vulnerabile e non sempre idonea a difendere i piccoli con successo. La sopravvivenza dei piccoli dipende, infatti, dalla sorte dei genitori: solo se entrambi riescono a svolgere al meglio il proprio ruolo, i figli hanno buone speranze di sopravvivere, ma è sufficiente che uno dei due si indebolisca o muoia, che il destino della famiglia è segnato. Un’altra difficoltà è legata al reperimento delle risorse. Prima che nascano i piccoli, i due membri della coppia possono perlustrare spazi più ampi e muoversi liberamente alla ricerca di nuovi spazi, da cui traggono risorse per due. Dopo la nascita dei figli, bisogna ricavare maggiori risorse dallo stesso territorio, ed è sufficiente una causa avversa per decretare il destino dei piccoli. È necessario dunque che questi si diano da fare, se non vogliono soccombere. Tra fratelli non esistono legami parentali paragonabili a quelli che si stabiliscono tra madre e figlio, né si manifestano comportamenti altruistici indotti da uno specifico assetto ormonale. Ciascuno si attacca ad una mammella e poppa con energia e, nel caso in cui il latte materno scarseggia, il soggetto più vigoroso si attacca alla mammella più turgida e la prosciuga voracemente, condannando il fratello più debole a morire di inedia. Anche tra fratelli vale dunque la legge del più forte. Se tutti i figli muoiono, e ciò accade spesso, alla coppia non rimane altro che ricominciare, ma, a conti fatti, non dev’essere facile mantenere un equilibrio demografico attivo.
L’australopiteco, infatti, non riesce a superare la regione in cui si è affermato e, dopo 1,5 Myr, si estingue lasciando il posto ad una nuova specie, quella dell’homo habilis, che è dotata di un maggiore sviluppo del cervello, che la rende capace di costruire e usare utensili, e una maggiore socialità, che consente l’affermazione di tecniche di caccia e il passaggio da una dieta vegetariana ad una onnivora. Queste nuove caratteristiche sono tali da conferire all’habilis un aspetto decisamente umanoide, tale da meritargli l’appellativo di ominide e dalle quali prenderanno origine profondi cambiamenti sociali e culturali, di cui ci dobbiamo occupare.
La famiglia habilis
Per molto tempo la struttura sociale dell’habilis è rimasta centrata sulla famiglia e la vita quotidiana non si è discostata significativamente da quella dell’australopiteco, ma, questa volta, la bilancia demografica assume un andamento lievemente positivo, così che, dopo centinaia di migliaia di anni di anni, l’habilis ha già colonizzato molte regioni del Continente africano, tanto che gli spazi cominciano a scarseggiare e non è più possibile la libera espansione. Occorre imparare a gestire meglio le risorse del proprio territorio, incrementarle se possibile, oppure mettere in atto una qualche politica di controllo demografico, ma queste soluzioni appaiono per il momento non alla portata dell’habilis, il quale dipende ancora dalla suprema legge di natura, ossia la legge del più forte, la quale stabilisce chi deve sopravvivere e riprodursi e chi invece deve mettersi da parte e perire. Il principio di forza dipende dalla necessità di competere per l’accesso alle risorse e, se non ci fosse questa necessità, esso non avrebbe ragione di esistere. Dalla combinazione fra principio di forza e competizione prende origine il principio di ordine gerarchico, il quale stabilisce l’ordine in cui ciascun individuo potrà accedere alle risorse, evitando che ci si debba azzuffare ogni volta. È come se la natura affidasse alla legge del più forte il compito di razionalizzare il consumo delle limitate risorse.
La realtà che ne risulta è assai diversa da quella nota all’australopiteco. Se prima era sufficiente spostarsi un po’ più in là per reperire ciò di cui si aveva bisogno, adesso il territorio lo si deve conquistare e difendere con la forza. Questo compito viene accollato dal maschio per questioni biologiche. A causa della sua stessa fisiologia, infatti, “il ruolo fondamentale della donna è quello di procreare, di accudire, nutrire, protegge ed educare i figli” (ANATI 1992: 57). Una femmina gravida o con dei piccoli da allattare non è in grado di controllare o difendere un territorio. Si delinea così una prima netta divisione dei compiti fra maschio e femmina: il primo si occupa del territorio, la seconda dei piccoli. È la prima forma di società organizzata.
Gli scontri fra maschi, che vengono per lo più condotti in modo simbolico e senza l’intenzione di arrecare danni fisici all’avversario, servono essenzialmente a misurare le reciproche forze e a indicare chi è il maschio alfa, ossia il signore del territorio, colui che ha diritto di precedenza su cibo e femmine, il capo insomma. Nasce così la prima forma di «proprietà privata», la quale viene conquistata e difesa con la forza. Solo il maschio che possiede un territorio ha concrete possibilità di offrire alla prole le condizioni necessarie alla sopravvivenza e solo da lui le femmine si fanno fecondare. All’interno del territorio la famiglia tende a scegliere un luogo, dove preferibilmente vengono custoditi i piccoli da allattare, che chiameremo campo base, o accampamento, che è situato in una posizione favorevole, da cui è possibile avvistare possibili nemici e dove si possono trovare nascondigli o vie di fuga. Il campo base che costituisce la principale novità del momento. Esso, infatti, dev’essere stato sconosciuto agli australopitechi, così come lo è alle grandi antropomorfe, le quali, quando scende la sera, “non fanno ritorno ad alcun tipo di sito-base, ma quando scende la notte si limitano a costruirsi un nido ovunque si trovino” (STANFORD 2001: 121).
La scelta del territorio è della massima importanza. Esso deve essere tanto grande da offrire cibo sufficiente, ma abbastanza piccolo da poter consentire al maschio alfa di percorrerlo in lungo e in largo e di poter far ritorno, all’imbrunire, da qualsiasi punto al campo base, dove c’è chi aspetta la propria parte di cibo.
Un territorio di 10-20 Kmq può costituire la risposta ideale ai bisogni di un gruppo familiare di 5-20 membri. A titolo di confronto, si pensi che oggi, nei paesi più avanzati, un territorio di 3 Kmq può produrre cibo sufficiente a sfamare oltre duemila persone (Vardiman 1998: 142). È necessario poi che esso sia dotato di alcune risorse irrinunciabili. La prima e fondamentale risorsa è l’acqua dolce, ed è per questo che i territori più idonei all’insediamento sono quelli che costeggiano un fiume o un lago, o che sono attraversati da un ruscello, o in cui è presente una sorgente. Dove c’è acqua c’è vegetazione, e dove c’è vegetazione c’è fauna. Ciò è sufficiente per il fabbisogno della famiglia, ma, potendo scegliere, sarebbe meglio che ci fossero anche punti di osservazione e ripari o situazioni favorevoli, come lo può essere un guado, dove transitano le mandrie di gnu che, nell’attraversamento, sono costrette a rallentare la loro marcia. Alcuni esemplari vengono travolti dalle acque e annegano, altri vengono feriti dai coccodrilli, altri ancora rimangono indeboliti dallo sforzo nell’attraversare il guado. Anche un solo ominide potrebbe approfittare di questa favorevole occasione per procurarsi un ricco bottino con poco sforzo.
Ottenuto il necessario riconoscimento dai rivali, che gli inviano segnali di sottomissione, il maschio dominante provvede alla demarcazione del territorio appena conquistato, in modo che tutti i possibili competitori sappiano che quel territorio ha un padrone disposto a difenderlo. Se questo comportamento funziona da deterrente per gli individui di sesso maschile, non così accade per le femmine, che anzi si sentono attratte da quella che esse vedono come un’opportunità per riprodursi.
Come fosse composta la famiglia dell’habilis non ci è dato di saperlo, ma ci sono ragioni per credere che un modello nucleare sarebbe stato troppo debole per risultare funzionale in quel contesto. È da ritenere verosimile che non esistesse un unico modello di famiglia, ma che la forma della famiglia cambiasse a seconda del caso, tenendo conto sia della natura degli individui, sia della disponibilità delle risorse. Ora, se guardiamo dal punto di vista del singolo, noteremo che il maschio avrà interesse a disporre di più femmine, perché così aumenterebbe la sua fitness, e la femmina più maschi, perché avrebbe più attenzioni e più beni. Il maschio, infatti, tende a fare regali alla femmina con la quale si accoppia (HARRIS 2002: 197). La poliginia prevale dove c’è abbondanza di terra, perché più mogli significano più figli e più braccia da lavoro. La poliandria prevale quando c’è scarsità di risorse, perché si traduce in un contenimento delle nascite (HARRIS 2002: 150).
Senza farla tanto lunga, gli esempi presenti in natura, sia in campo etologico che antropologico, ci inducono a ritenere più probabile il modello poliginico monoandrico, ossia l’unione di più femmine con un solo maschio, perché sicuramente più funzionale e vantaggioso di qualunque altro. Per il maschio c’è il vantaggio della sicurezza della paternità (dal momento che è unico) e della massima fitness (più sono le femmine più numerosa è la sua discendenza). Per le femmine il vantaggio è quello di poter contare sulla solidarietà delle compagne, al fine di poter conciliare l’esigenza di perlustrare il territorio alla ricerca di cibo con l’altra esigenza di stabilire un campo base dove accudire i piccoli e tenerli al riparo dai pericoli. In sostanza, mentre una femmina (di solito l’ultima che ha partorito) rimane nel campo base e si prende cura della prole, le altre femmine adulte possono allontanarsi (da sole o insieme al maschio) e contribuire con lui alla ricerca di cibo.
È probabile, soprattutto nei momenti di scarsità, che tra le femmine si instaurasse un ordine gerarchico atto a regolare tanto l’accesso alle risorse alimentari quanto quello ai partner sessuali. In altri termini, la femmina alfa poteva nutrirsi meglio e pretendere per sé l’esclusività riproduttiva, impedendo alle altre femmine di accoppiarsi. Ma ciò non doveva essere per nulla semplice, perché non era facile controllare, attimo per attimo, tutte le femmine, e così, di solito, si raggiungeva una condizione di compromesso, nella quale la femmina alfa rinunciava al suo dispotismo e lasciava qualche libertà alle altre femmine, accontentandosi di certi privilegi, come la precedenza nell’accesso al cibo e al maschio o la facoltà di prendere decisioni di interesse collettivo. Tutto ciò contribuiva a perseguire lo scopo, non cosciente, di mantenere in equilibrio la densità demografica con la disponibilità delle risorse.
Ricostruzione della famiglia Alfa
Pur non conoscendo alcuna famiglia habilis, possiamo tentare di ricostruire la «preistoria» di una famiglia ipotetica, e lo facciamo partendo da un giovane maschio, che chiamiamo Alf, il quale vive in un imprecisato luogo della Tanzania. Divenuto adulto all’età di 6 anni, Alf viene allontanato precocemente dalla madre, perché ci sono troppe bocche da sfamare e le risorse non sono sufficienti. Inizia per lui una pericolosa fase di vagabondaggio nel corso della quale, per sua fortuna, riesce a trovare un territorio da poco rimasto libero a causa della morte di tutti gli individui che lo abitavano. Comincia a esplorarlo e, dopo essersi assicurato che è disabitato, ne marca i confini con le sue secrezioni e vi stabilisce la propria residenza. La conquista, sia pure pacifica, di quel territorio rappresenta l’atto fondativo di una nuova dimora, idonea ad ospitare una famiglia. Quegli odori, che tengono lontani gli altri maschi di passaggio, attirano infatti cinque femmine, che vengono ben accolte. Hanno tutte superato i cinque anni, età in cui avviene la pubertà, e quindi sono fertili, ma solo due riescono ad accoppiarsi, le due femmine più vigorose e intelligenti, che chiameremo Luna e Stella, le quali trovano il modo di spalleggiarsi e tenere le altre sottomesse e lontane dal maschio. Per il momento queste sembrano accettare e un’apparente quiete regna nel gruppo.
Sei mesi dopo, a dieci anni suonati, Alf è divenuto padre due volte. Luna ha dato alla luce due maschi, Stella una femmina. Il parto è stato regolare in entrambi i casi e privo di conseguenze negative per le madri; i piccoli sono sani e in ottima salute, ma del tutto incapaci di badare a se stessi e di sopravvivere senza il latte materno. Da quel momento, il ruolo di madre a tempo pieno di Luna e di Stella ne limita le libertà di spostamento e di ricerca del cibo e le costringe a trattenersi nei pressi del campo base. Durante il giorno, quando la situazione appare tranquilla, le madri si allontanano per qualche decina di metri dal campo alla ricerca di cibo seguite dai piccoli, i quali imparano da loro a riconoscere le materie commestibili, oltre che i pericoli da evitare, ma in quello spazio ristretto, non è facile trovare tutto il cibo necessario e perciò le nostre due madri devono poter contare sull’improbabile aiuto del compagno e degli altri membri del gruppo.
Intanto, approfittando delle favorevoli circostanze, le altre femmine si accoppiano col maschio e, sei mesi dopo, anch’esse partoriscono: una muore, insieme al piccolo, per complicanze da parto; le altre due hanno un piccolo a testa. Luna e Stella reagiscono e cercano di impedire alle neo-madri di nutrire i loro piccoli, uno dei quali muore dopo pochi giorni, mentre l’altro riesce a sopravvive, anche grazie alla solidarietà delle due madri, che, coalizzate, resistono all’atteggiamento minaccioso di Luna e Stella e si alternano nell’allattamento del piccolo.
La vita quotidiana della famiglia
Finché allatta, di norma una femmina non è in grado di concepire e, poiché l’allattamento si protrae almeno fino ai 12 mesi, ne consegue che una madre può partorire nuovamente a distanza di almeno 18 mesi dal precedente parto. Ora, se stabiliamo che il periodo di fertilità femminile si conclude intorno ai 15-16 anni e se ipotizziamo parti regolari e per metà gemellari, ne consegue che il numero massimo teorico di figli che una femmina può generare è di una dozzina, mentre in pratica ne nasce qualcuno di meno e ne sopravvivono mediamente tre o quattro.
All’età di un anno i piccoli possono già passare alla dieta solida e, un anno dopo, sono già in grado di seguire gli altri membri del gruppo, raccogliere il cibo e mangiare autonomamente. Più crescono e più si allontanano dal campo base, dapprima al seguito di adulti, poi anche in gruppetti di due-tre coetanei. Fino alla pubertà gran parte del tempo è impiegato nel gioco: rami, pietre, piante, foglie, animali, acqua, fuoco, sostanze coloranti, e tante altre cose, richiamano la loro curiosità e costituiscono oggetto di attenzione e di divertimento. Con la pubertà, si diventa adulti e come tali ci si comporta. Tutti, tranne i bambini più piccoli, cercano e raccolgono il cibo. Bacche, frutti, erbe, foglie, tuberi e radici costituiscono l’alimentazione ordinaria, ma, con un po’ di fortuna, ci si può procurare qualcosa di diverso, perfino qualche ghiottoneria, come la carogna di una gazzella, che un leopardo ha incautamente creduto di mettere al sicuro sul ramo di un albero, o le uova lasciate incustodite in un nido, o un cucciolo che ha perso il contatto con la madre, o un animale ferito. Possiamo immaginare la nostra famiglia mentre si muove di giorno nella savana ciascuno raccogliendo il cibo che consuma sul luogo. Niente scorte. E quando cala la sera, tutti sono già ritornati al campo base e ai ben noti rifugi naturali, per lo più grotte e alberi, dove trascorrono la notte.
Gli strumenti
Osservando la madre e gli altri adulti, i piccoli imparano a conoscere il territorio, a distinguere gli animali innocui da quelli pericolosi e le piante commestibili da quelle tossiche, ad arrampicarsi sugli alberi, a fuggire, a nascondersi, a preparare il giaciglio per la notte, ma anche a servirsi di pietre o rami come strumenti. Già, lo «strumento». Le mani e il cervello dell’habilis si sono evoluti tanto da consentire la costruzione e l’uso di strumenti. Un lungo e robusto bastone può essere impiegato come prolungamento della mano per estrarre un tubero dal terreno, smuovere un masso, agitare un cespuglio, o come arma da roteare o lanciare per spaventare un leopardo, colpire un serpente velenoso, attaccare un nemico, catturare una preda. Con le stesse funzioni può essere utilizzato un sasso, che però è maggiormente adatto per certi scopi, come rompere un guscio. Dopo l’uso, sassi e bastoni non servono più e vengono gettati via.
Particolarmente apprezzati sono i ciottoli di forma sferoide, che si rivelano già pronti per l’uso. Inizialmente l’ominide si limita a scegliere quello che gli sembra più adatto in un dato momento; successivamente impara a scheggiarlo da un lato, al fine di ottenerne un utensile il più possibile specifico, sebbene ancora molto grossolano. La tecnica applicata è molto semplice: è sufficiente battere fra loro due ciottoli fino a scheggiarli e poi scegliere quello più adatto allo scopo del momento. Questo è il chopper, un utensile primitivo, che è adatto a battere, tritare, macinare, sminuzzare e ad altre funzioni, uno strumento fra i più utilizzati dagli ominidi fino a 100 Kyr fa.
Bastoni e sassi costituiscono i primi strumenti usati dall’ominide, ma questo non rappresenta ancora una specificità, dal momento che altri animali, come la lontra e lo scimpanzé, usano sassi e bastoni come utensili: bisogna aspettare ancora molto tempo prima che l’ominide impari a lavorare la pietra in modo propriamente umano.
La caccia
La caccia non è ancora praticata in modo sistematico e non costituisce un’importante fonte di cibo. In teoria, essa è aperta a tutti, ma di fatto, escludendo le femmine che allattano e i piccoli, ad occuparsene è solo il maschio dominante e qualche rara femmina cui è stata preclusa la riproduzione, eccezionalmente qualche altro maschio adulto, che ancora non è stato cacciato via. Il più delle volte il maschio alfa è l’unico in grado di cacciare, ma può catturare solo piccole prede. Muovendosi liberamente in tutto il territorio egli ha l’indubbio vantaggio di trovare più cibo e nutrirsi meglio degli altri, ma si espone anche a maggiori rischi e spesso è lui a costituire la preda.
A parte i più piccoli, che dipendono in tutto e per tutto dagli adulti, tutti gli altri provvedono alla propria sussistenza, ciascuno secondo le proprie capacità. La gerarchia sociale è debole, e la sua funzione è essenzialmente quella di controllare le nascite e mantenere in equilibrio la popolazione con le risorse naturali. Il maschio alfa non ha potere su alcun membro adulto del gruppo e non può imporre ad alcuno dove andare e cosa fare, ma può impedire ad un altro maschio di procreare o allontanarlo dal gruppo, almeno fino a quando è il più forte. Quando però il suo fisico si indebolisce, un altro maschio prende il suo posto, mentre lui finisce i suoi giorni e mestamente esce di scena. Escludendo queste particolari azioni di forza e, superato il periodo dell’infanzia, la vita di ciascuno non dipende da nessun altro che da se stesso; ciascuno è padrone della propria vita.
Il linguaggio
Rimane la questione del linguaggio. Come comunicano gli habilis? Come si trasmettono le informazioni? Ancora una volta dobbiamo ammettere la nostra ignoranza, ma è probabile che il loro apparato fonetico fosse tale da consentire solo un linguaggio prevalentemente gestuale, non molto diverso da quello degli scimpanzé.
Ritorniamo alla famiglia Alfa. Quando Alf supera i 16 anni ed è ormai un «anziano», i due figli di Luna, ormai adulti, insidiano le femmine ed esibiscono maldestramente certi comportamenti di autoaffermazione, che vengono subito notati dal padre, che interviene e alla fine convince i due giovani focosi ad abbandonare il gruppo e a cercare fortuna altrove. Anche la figlia di Stella è cresciuta. Con lei Alf si accoppierebbe volentieri, ma la madre vigila e la tiene lontana. Potrebbe invece accoppiarsi coi fratelli, che puntualmente arrivano ma, altrettanto puntualmente, vengono allontanati dall’inossidabile genitore. A 18 anni Alf appare provato e stanco, la pelle invecchiata dal sole, la bocca sdentata, il corpo deturpato dalle cicatrici e dalle mutilazioni riportate sia durante la ricerca del cibo, sia nelle azioni di caccia che di difesa dai predatori, e tutto ciò gli conferisce un aspetto molto senile. Sotto il profilo del vigore fisico, egli non può competere con i giovani, ma il suo cervello è ancora in ottime condizioni e, facendo leva sulla sua maggiore esperienza, riesce ancora ad essere rispettato e temuto. Dal punto di vista sessuale è ancora efficiente e, sia pure con crescente difficoltà, riesce ancora a svolgere il suo ruolo di maschio dominante. Intanto, altri figli sono venuti al mondo e tre di essi, ormai giovani maschi adulti, sono desiderosi di affermarsi e creano qualche problema al vecchio genitore, che però non sembra intenzionato a mollare e continua a dominare su una famiglia, che conta ormai ben quindici membri. Come se non si rendesse conto della sua decadenza fisica, Alf reagisce ai figli con il consueto cipiglio e con ostentata sicurezza e, almeno inizialmente, li induce ad esibire comportamenti di sottomissione. Cerca anche di cacciarli via, ma non ci riesce: un giorno uno dei tre reagisce con violenza e lo ferisce a morte.
Senza il freno di un maschio dominante, per un po’ nel gruppo regna un clima di tensione e di anarchia. Ognuno dei tre maschi fa quello che gli pare, si accoppia con chi gli pare e inutilmente le femmine più anziane cercano di reintrodurre nel gruppo una qualche regola. Poi avviene che uno dei tre maschi non ci sta e pretende lo scettro del comando, ma gli altri non intendono sottomettersi e fra i tre inizia una competizione, che si conclude con la fuga di due di loro. Adesso il gruppo ha un nuovo maschio dominante. Un nuovo re, che chiamiamo Bet, si è insediato sul trono vacante e ha dato inizio ad un nuovo ciclo. Al momento egli è l’unico maschio adulto. Luna e Stella, le femmine più anziane, sono sterili e non si accoppiano più, ma continuano a svolgere in seno al gruppo un ruolo di tipo «politico» e decidono di mettersi al servizio del nuovo signore. E guai per loro se non facessero così: il vincitore di solito non esita a liberarsi dei membri che non gli sono di alcun aiuto o che risultano inutili. Ma la loro vita ormai volge al termine ed esse muoiono di vecchiaia pochi mesi dopo.
All’inizio del regno di Bet il numero dei membri della famiglia si è ridotto a dieci, ma già dopo un anno, grazie anche ad un periodo di straordinaria abbondanza, esso raddoppia, raggiungendo così un limite difficilmente superabile: oltre al nostro, ci sono otto femmine adulte e undici piccoli. Poi le cose cambiano, le piogge scarseggiano e la terra produce di meno. I più deboli non ce la fanno e il gruppo si dimezza. Arrivano infine le piogge, ma, questa volta, esse sono così abbondanti da fare straripare il vicino fiume. Bet viene travolto da uno smottamento del terreno e muore, mentre il territorio, interamente allagato, non offre né punti di orientamento, né risorse. Il gruppo si sfalda e ciascuno si allontana scegliendo una direzione a caso. Alla fine si salvano solo due giovani femmine, che riescono a raggiungere un’area asciutta in una vicina altura, dove un possente maschio ha appena conquistato un vasto territorio ed è ben contento di accogliere le nuove arrivate. Questo racconto potrebbe continuare all’infinito, perché, in realtà, le «preistorie» sono tante quanti gli individui e a noi non interessa di raccontarle tutte.
I limiti e i vantaggi della famiglia
A questo punto del racconto, disponiamo di dati sufficienti per esprimere un breve e sommario giudizio sulla famiglia. Fino all’habilis, la famiglia ha dimostrato di avere svolto onestamente il compito per cui è nata, che è quello di garantire al meglio la sopravvivenza degli individui membri. Grazie alla sua organizzazione familiare, infatti, l’habilis, sia pure con fatica (c’è voluto 1 Myr!), è riuscito a colonizzare tutta l’Africa. Se ora ci chiediamo perché la famiglia abbia funzionato, non trovo risposta migliore dalla seguente: la forza della famiglia risiede essenzialmente nelle motivazioni che inducono i suoi membri a cooperare. È l’azione del gruppo che costituisce il maggior vantaggio della famiglia: 10-20 soggetti uniti hanno molte più chances di sopravvivere rispetto a qualunque individuo isolato.
All’interno della famiglia l’individuo non è più una monade, non è un’isola, non è solo contro tutti, ma è un nodo di relazioni, ovverosia un essere sociale. In virtù della famiglia, il destino del singolo individuo non dipende solo da se stesso, ma è legato a quello di altri. In ogni caso, il futuro della famiglia dipende, principalmente, dalla coppia dei genitori o di individui adulti disposti a cooperare e senza dei quali i piccoli non avrebbero alcuna probabilità di sopravvivenza. Il maschio dominante costituisce di certo la figura chiave attorno alla quale ruotano tutti gli altri membri e la sua morte rappresenta una grave perdita: se non c’è nessun maschio beta in grado di prenderne il posto, per la famiglia può essere la fine. Lo stesso vale per la femmina-madre: anche la sua morte può determinare danni irreparabili per i suoi piccoli, a meno che non ci siano altre femmine in grado di sostituirla nelle sue funzioni, il che vuol dire che la famiglia funziona meglio se, al suo interno, sono presenti altre figure di individui adulti, oltre alla coppia che ha generato.
Il principale limite della famiglia è che il numero dei suoi membri non può superare le venti unità. Ciò vale soprattutto per la coppia, che difficilmente può superare una dozzina di membri, un gruppo non solo piccolo, ma anche chiuso e fragile: chiuso, perché vi si appartiene solo per diritto di nascita; fragile, perché è sufficiente l’indebolimento o la morte di uno o due membri chiave per mettere a rischio l’intero gruppo. In termini di sopravvivenza, essa è in grado di conferire all’individuo un vantaggio significativo, ma, tutto sommato, modesto. I limiti della famiglia appaiono particolarmente evidenti nei periodi di scarsità e questi periodi, purtroppo, sono ricorrenti. Nessun territorio, infatti, è in grado di garantire risorse illimitate e costanti nel tempo, perché c’è sempre qualcosa che non va per il verso giusto: lo straripamento di un fiume, un incendio, un’eruzione vulcanica, una frana, la caduta di un albero, l’attacco di un predatore, un incidente, una malattia, o qualunque altro evento, in grado di mettere fuori gioco le poche figure adulte di una famiglia. Il pericolo è dietro l’angolo e incombe sulla famiglia minacciandola di estinzione.
Se oggi l’uomo è l’incontrastato signore della terra, a mio giudizio, ciò non è dovuto alla famiglia in sé: la famiglia non costituisce per l’uomo un decisivo vantaggio in se stessa, ma come imprescindibile punto di partenza di un impareggiabile sviluppo dell’individuo sotto il profilo sociale, intellettivo ed emotivo, da cui prenderà origine il linguaggio simbolico e il progressivo ampliamento delle dimensioni sociali. Senza la famiglia non ci sarebbe stata la Banda, né il Clan, né la Tribù, né la Città, né lo Stato. La famiglia rappresenta dunque il primo passo di un processo di socialità crescente, che farà dell’uomo il signore del pianeta e senza del quale non avrebbe nemmeno avuto senso lo straordinario sviluppo del cervello e del linguaggio. In definitiva, il segreto del successo dell’uomo non è da ricercare nella famiglia, quanto piuttosto in ciò che la famiglia ha reso possibile, vale a dire nella costituzione di società sempre più ampie, eterogenee e complesse. Sotto questo aspetto, possiamo dire che l’evoluzione umana (del bipedismo, del cervello, dell’intelligenza e del linguagggio) si muove verso il sociale e si comprende alla luce del sociale (FOLEY 1999: 213, 238), un sociale che ha il suo punto di partenza nella famiglia.
8. Città e Stati (8 - 5.5 mila anni fa)
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