Nel capitolo precedente abbiamo osservato che la banda non ha ancora superato i limiti biologici della famiglia: sarà allargata quanto si vuole, ma la sua logica resta di tipo familiare, essendo ancora fondata sulla vicinanza fisica dei membri e sui vincoli di sangue. Rispetto al gruppo familiare, tuttavia, la banda offre maggiori garanzie di sopravvivenza all’individuo. Il suo principale punto di forza è il numero: una comunità di 25-250 membri (la banda) risulta più idonea a resistere alle avversità e più vantaggiosa per l’individuo rispetto a una di 5-20 membri (la famiglia). La banda, tuttavia, conserva tutti i punti deboli della famiglia, in particolare la sua scarsa espandibilità territoriale e demografica e la sua chiusura nei confronti degli estranei. Una banda non è in grado di controllare un territorio più esteso di 300 Kmq e, se si indebolisce per una qualsiasi ragione, soggetti esterni possono approfittarne per annientarla e insediarsi al suo posto, formando un’altra banda, ma il sistema sociale non cambia. Questo stato di cose perdura fino a 100 Kyr fa, quando, a causa dell’incremento demografico, nel Continente africano, gli scontri fra bande sono divenuti frequenti, mentre le condizioni di vita tendono a peggiorare, anche a causa dei continui scontri fra le bande. Quando appare evidente che la banda non è più in grado di proteggere adeguatamente l’individuo, si comincia ad avvertire la necessità di un cambiamento e, alla fine di un lungo percorso, si giunge al clan.
La società clanica nel Paleolitico medio
Il clan risulta dalla fusione di più bande, che si uniscono sotto un Simbolo comune e un dio comune, diventando un’unica popolazione. Rispetto alla banda, il clan è un gruppo nettamente più numeroso: inizialmente è composto da 3-400 membri, che controllano un territorio di 500 Kmq, ma, col passare del tempo, si giunge fino al raddoppiamento sia della consistenza numerica che dell’estensione territoriale. Così, nelle fasi più mature, intorno a 40 Kyr fa, un clan medio comprende da sei a ottocento individui, insediati in territorio esteso per mille Kmq, vale a dire una popolazione almeno 2-3 volte più numerosa di quella di banda, con indubbi vantaggi, sia dal punto di vista dello sfruttamento territoriale sia sotto quello dell’organizzazione sociale. Se guardiamo al territorio, infatti, mille Kmq rappresenta un’area ancora sufficientemente piccola da poter essere esplorata e conosciuta da uomini che si muovono a piedi, ma abbastanza grande da comprendere una certa variabilità di risorse. Zone pianeggianti e collinari, montagne rocciose e verdi vallate, laghi e fiumi, prati e boschi, paludi e terreni aridi vi possono essere variamente rappresentati e possono ospitare una flora e una fauna sufficientemente varie da soddisfare il bisogno di cibo di un clan, anche nel caso in cui una qualche calamità naturale, come un incendio, una grandinata, un forte vento o lo straripamento di un fiume, vi abbiano determinato delle ferite. Un territorio molto più esteso sarebbe più difficile da controllare e non offrirebbe ulteriori vantaggi, perciò, dopo il clan, non vi saranno altri significativi sviluppi della struttura sociale e la società clanica rimarrà stabile per molte migliaia di anni.
In sostanza, il clan rappresenta la massima espressione della naturale socialità dell’uomo e costituisce la risposta estrema, di tipo spontaneo e biologico all’esigenza dell’ominide di sfruttare al meglio il territorio onde poter offrire agli individui cibo e sicurezza, preservandoli nello stesso tempo dal rischio di scontri coi vicini. In pratica, ai fini dello sfruttamento delle risorse. In altri termini, posto che ciascun individuo è portatore di irrinunciabili bisogni, per la soddisfazione dei quali è necessario attingere alle risorse ambientali (spazio vitale, cibo, riparo, ecc.), la società clanica è quella che sfrutta al meglio tali risorse, prima che la cultura prenda il sopravvento nel processo evolutivo delle società umane, dando origine alla società tribale. Ma come è avvenuto il passaggio dalla banda al clan? È quello che vedremo qui avanti, attraverso un’ipotetica ricostruzione dei fatti, che hanno segnato i 60.000 anni del Paleolitico medio.
Il Paleolitico medio è il periodo che va da 100 a 40 Kyr fa ed è caratterizzato dalla compresenza di due specie di Homo (il Neandertal e il Proto-Sapiens o Cro-Magnon), che sono paragonabili per abilità fisica e intelligenza e si contendono la signoria del pianeta. Non sappiamo che tipo di rapporto le due specie abbiano stabilito. Sappiamo però che, per decine di Kyr, esse si mantennero in condizioni di equilibrio e che, circa 40 Kyr fa, successe qualcosa che porterà, nei successivi 10 Kyr, il Neandertal all’estinzione. Iniziamo coll’illustrare i due protagonisti di questa affascinante storia.
L’uomo di Neandertal
L’homo sapiens neandertalensis si afferma in Europa intorno a 200 Kyr fa. Il suo aspetto fisico e il suo stile di vita possiamo desumerli dai circa trecento resti di scheletri ritrovati finora. Rispetto al Cro-Magnon, il Neandertal ha un corpo eccezionalmente robusto, particolarmente adatto ai climi freddi, e dispone di un cervello di dimensioni uguali o superiori, ma appiattito a livello frontale, nella sede cioè deputata all’elaborazione del pensiero astratto. Come il Cro-Magnon, anche il Neandertal è organizzato in società di banda, ma con una differenza: le singole famiglie neandertal tendono a vivere autarchicamente e hanno scarsi rapporti fra loro.
Seppur in apparenza simili a quelle del cugino Cro-Magnon, le bande di Neandertal si caratterizzano, dunque, per la loro scarsa coesione sociale. “D’altronde la mancanza quasi totale, fra i resti musteriani, di qualsiasi oggetto suggestivo che fosse utilizzato come decorazione personale, costituisce un’argomentazione contro ogni forma di complessità sociale, dato che indossare accessori decorativi è una caratteristica delle complesse relazioni sociali degli esseri umani moderni” (JORDAN 2001: 114). In assenza di pericoli, i Neandertal “conducevano per lo più vite separate e gli individui di rado si avventuravano in viaggio, lontano dalla loro base, interagendo ben poco con i componenti di altri gruppi. Senza alcun tipo di progetti di accoppiamento semipermanente, non esistevano parentele acquisite, matrimoni nell’ambito di altri gruppi, società allargate, alleanze; né vi era una sorta di sostegno da parte di parenti lontani quando se ne presentasse la necessità” (JORDAN 2001: 112). Solo in caso di pericolo o per esigenze di caccia, la banda agisce in modo solidale e mette sul campo tutto il suo potenziale, che può contare su una compagine di poche decine di maschi adulti, coraggiosi e aggressivi, capaci di usare pietre e bastoni e di agire in modo organizzato e compatto in vista di un obiettivo comune. Non c’è nessun animale al mondo in grado di costituire una seria minaccia per una banda di Neandertal schierata in posizione di difesa, mentre molto vulnerabili risultano i singoli isolati, specie se piccoli o con menomazioni fisiche.
La vita quotidiana
I Neandertal sono onnivori e vivono di caccia e raccolta. Durante il giorno si muovono al seguito delle mandrie e ciascuno consuma il cibo man mano che lo raccoglie. Quando sono stanchi o si vogliono difendere dalla pioggia, dal sole o dal vento, si riparano all’ombra di un albero, in un anfratto roccioso o dentro una grotta. Di notte preferiscono dormire sul ramo di un albero, al sicuro dagli attacchi di predatori, o in altri luoghi riparati dalle intemperie ma, se le condizioni climatiche lo permettono e se la compagine è compatta, si sentono ugualmente al sicuro pur dormendo in luoghi aperti, unicamente protetti dalla forza del gruppo. Talvolta decidono di trattenersi nello stesso luogo per un tempo indeterminato: lo fanno quando il territorio è ricco di risorse e di ripari, dove le madri e i loro piccoli possono starsene al sicuro, mentre i maschi si avviano per la consueta battuta di caccia, ed è anche vicino a un corso d’acqua, dove è possibile dissetarsi e tendere imboscate agli ignari animali che vi si recano per abbeverarsi. Di solito i siti migliori sono già occupati e gli ultimi arrivati devono valutare se è il caso di tentare di cacciare i residenti, oppure ripiegare verso siti liberi, magari meno appetibili, ma a minor rischio.
I Neandertal sono in grado di riconoscere le differenze fra i diversi tipi di pietra e operano un’accurata selezione a seconda dell’uso che ne devono fare: di norma scelgono le pietre più dure e resistenti, come il quarzo, il basalto, il granito e, soprattutto, la selce, che utilizzano per costruire una varietà di utensili, come punte, coltelli, grattatoi, punteruoli e bulini. Le capacità tecniche del Neandertal non sono dissimili rispetto a quelle del cugino Cro-Magnon e danno vita ad un’attività produttiva nota col nome di industria musteriana, detta così dal rifugio rupestre di Le Moustier, nella Francia sudoccidentale.
La caccia
Mentre l’attività di raccolta è aperta a tutti, a causa dei rischi che comporta, la caccia è riservata agli adulti. La tecnica cambia a seconda della preda ma, in ogni caso, richiede un minimo di organizzazione. Se la preda è un animale di grossa taglia, tutti i membri adulti disponibili della banda devono partecipare e cooperare. Anche un mammuth ha da temere da un plotone di 20-30 neandertal armati di pietre e bastoni e ben organizzati. Le prede vengono spartite secondo precise regole sociali, che sono dettate dalla necessità di preservare la solidarietà e il consenso all’interno del gruppo e di conciliare il principio di forza, che imporrebbe un ordine gerarchico di accesso al cibo, con quello dell’interesse generale del gruppo, che vuole si dia una parte anche ai soggetti più deboli. La banda non accantona riserve alimentari e si limita semplicemente a vivere momento per momento, accampandosi là dove il cibo è particolarmente abbondante, non esitando a rimettersi in marcia quando il cibo comincia a scarseggiare.
La cultura
Controverse sono le nostre conoscenze circa il livello culturale raggiunto dal Neandertal. Il ritrovamento di un discreto numero di sepolture, di ossa incise e grafismi induce a credere che egli fosse capace non solo di usare il fuoco e articolare tutti i suoni dell’uomo moderno (SCHRENK 2003: 115-121), “quasi come l’uomo attuale” (CHAVAILLON 1998: 147), ma anche di elaborare un pensiero astratto e di sviluppare un’autocoscienza, insieme alla consapevolezza della morte e ad una seppur vaga idea di aldilà (ANATI 1992: 37). I Neandertal furono forse i primi ominidi che credevano in una vita dopo la morte e seppellivano intenzionalmente i propri simili (HERBERT 1994: 115), accompagnandoli con oggetti di corredo, e non si può escludere che fossero anche dotati di sentimento religioso. Altri, invece, sostengono che l’uomo di Neandertal fosse inadatto a produrre un linguaggio articolato o un pensiero astratto e di elaborare oggetti simbolico (TATTERSALL 1998: 136-68), e vedono, pertanto, nell’inumazione dei morti solo un comportamento casuale, privo di significato religioso o rituale, probabilmente legato ad opportunità contingenti, come la necessità di nascondere il cadavere onde evitare di essere disturbati da sciacalli o avvoltoi. Analogamente, il grafismo neandertaliano potrebbe rappresentare una sensibilità artistica incipiente, ma non ancora ben definita e matura. “La mancanza quasi totale di simbolismo, vista in tutti i prodotti neandertaliani, e la limitatezza della loro industria litica, contraddicono la possibilità che potessero produrre un linguaggio complesso ad alto contenuto simbolico e ricco di varietà espressive (JORDAN 2001: 130).
Il mistero dell’estinzione
Tanto intelligente e abile da lavorare la pietra e praticare efficaci azioni di caccia, tanto robusto da resistere ai climi rigidi dell’emisfero settentrionale del pianeta, tanto sociale da costituire gruppi di banda. Ecco, dunque, chi era il Neandertal. Ma allora, perché si è estinto? Quali erano i suoi limiti? Quali i suoi competitori? È difficile dirlo, ma è verosimile che la principale causa della fine del Nendertal vada ricercata nei limiti del suo cervello. L’ipotesi di un Neandertal poco capace di esprimersi con un linguaggio articolato e di elaborare un pensiero simbolico è plausibile e, come vedremo, può spiegare la sua insuperabile debolezza nei confronti del Cro-Magnon e la sua estinzione.
Il Cro-Magnon
Il secondo protagonista del Paleolitico medio è il Cro-Magnon o Pre-sapiens, il nostro immediato predecessore, la cui provenienza e data di nascita non sono state fissate in modo certo. Secondo la tecnica del cosiddetto «orologio mitocondriale», egli sarebbe comparso, circa 150 Kyr fa, in una regione imprecisata dell’Africa centro-meridionale, da dove si sarebbe diffuso sull’intero pianeta. Sembra che, nel Vicino Oriente, 70-60 Kyr fa, il Cro-Magnon e il Neandertal si siano incontrati e abbiano iniziato un lungo periodo di convivenza, che si è protratto fino a circa 50 Kyr fa e che è stato contrassegnato da un equilibrio di forze. Ma, a partire dal quel periodo, le strade dei due Sapiens hanno cominciato a differenziarsi: il Neandertal non è riuscito ad andare oltre la società di banda, mentre il Cro-Magnon si è evoluto ancora e ha cominciato a realizzare società sempre più ampie e complesse, non più fondate soltanto su fattori biologici e parentali, ma anche su fattori simbolici e culturali, che, come vedremo, lo consacreranno signore incontrastato del pianeta.
Perché il Cro-Magnon, e solo lui, fu capace di pervenire alla società di clan? A contraddistinguere questo ominide fu una maggiore propensione per il pensiero astratto, che si traduceva “nell’uso non di segni e disegni bensì di simboli” (LEGRENZI 2002: 45) e ciò fu sufficiente a conferirgli una crescente superiorità su tutte le altre specie viventi, Neandertal compreso. Secondo le nostre conoscenze, è stato grazie all’affermazione del pensiero simbolico che, a partire da circa 50 Kyr fa, il Sapiens (così come ormai si chiama il Cro-Magnon) ha dato inizio ad uno straordinario cammino culturale che, nell’arco di circa 20 Kyr, farà di lui la specie di gran lunga più potente della Terra. La prima tappa di questo straordinario cammino è rappresentata, come spiegherò meglio più avanti, dalla costituzione della società di clan, che renderà il Sapiens così superiore da condannare il Neandertal ad una inesorabile e progressiva ritirata, fino alla scomparsa totale. Questo processo si realizzerà e si completerà nel lungo arco di tempo compreso fra 50 e 30 Kyr fa, durante il quale le due specie continueranno a convivere.
Quel che è avvenuto fra il Sapiens e il Neandertal in questo periodo, evoca alla memoria gli eventi che hanno segnato l’incontro, due secoli fa, tra i colonizzatori europei e gli indiani d’America, con la differenza che fra Neandertal e Cro-Magnon non vi sono state né battaglie né guerre, ma soltanto una lenta, progressiva e inarrestabile avanzata di questi ultimi, accompagnata da una altrettanto lenta, progressiva e inarrestabile ritirata dei primi. Mentre le piccole bande di Neandertal continuavano a muoversi incessantemente da un luogo all’altro, inseguendo il cibo, i più numerosi e organizzati gruppi clanici dei Sapiens, nella loro lenta avanzata, le costringevano ad arretrare. È possibile che la mancanza di spazi di fuga abbia portato alla disperazione qualche banda di Neandertal, inducendola ad impugnare le armi, ma con esiti catastrofici per se stessa e, soprattutto, scontati: insomma, una tragedia annunciata. Fra clan e bande, infatti, il cui rapporto numerico è almeno di 5 a 1, non c’era partita. Si consumava così la lento e malinconica estinzione del Neandertal.
La società di clan
Ma perché la società di clan ha conferito al Sapiens una superiorità così schiacciante rispetto al Neandertal? E che cos’è in definitiva un clan? A queste domande cercherò di dare una risposta qui di seguito.
Intanto va precisato che il passaggio dalla società di banda a quella di clan non è stato un evento rapido e di rottura, ma il risultato di un processo lento e graduale, che ha richiesto decine di migliaia di anni: praticamente l’intero periodo del paleolitico medio è stato contrassegnato dal passaggio dalla società di banda a quella di clan, ovverosia dall’evoluzione del Cro-Magnon in Sapiens-sapiens o «uomo» propriamente detto (da qui in avanti, lo chiameremo semplicemente Sapiens). Il punto di partenza è da individuare nell’incremento demografico del Sapiens in Africa ed Asia, mentre l’Europa era popolata da rade bende di Neandertal. Intorno a 50 Kyr fa, il Sapiens, che era in fase di espansione, giunse a contatto del Neandertal e per un po’ fu costretto a fermare la sua marcia, perché le bande delle due specie si equivalevano e si temevano. Questa situazione fu sbloccata dall’affermazione e diffusione della società di clan, la quale conferì al Sapiens una netta superiorità e gli consentì di riprendere la sua marcia verso il Continente europeo. Sotto questo aspetto, la società di clan fu una risposta vincente del Sapiens al progressivo incremento demografico e alla conseguente esigenza di reperire ulteriori spazi e risorse.
Sotto il profilo biologico, i singoli individui sono motivati da due opposte impulsi naturali (uno al servizio della sopravvivenza individuale, l’altro al servizio della comunità), ciascuno dei quali, come sappiamo dalla legge di Malthus, è condizionato dal variabile rapporto tra densità demografica e disponibilità delle risorse ambientali. Condizioni di abbondanza inducono le famiglie ad aprirsi e a stabilire rapporti sociali più distesi, mentre la scarsità delle risorse, specie se si verifica in un momento di crescita demografica, favorisce le azioni egoistiche e di chiusura. Nel primo caso gli individui sono indotti ad esibire comportamenti altruistici e prosociali, seppure limitatamente all’interno della sfera familiare e dei vicini; nel secondo, si chiudono all’interno delle rispettive famiglie e manifestano comportamenti ostili nei confronti di qualunque estraneo. Uno stato di tensione o di guerra tra famiglie rappresenta un fattore di instabilità sociale e, a livello individuale, si traduce in un senso di insicurezza e precarietà. Ebbene, le comunità sapiens dovevano trovare spazi e risorse se volevano evitare la propria disgregazione o uno stato di crisi persistente.
I primi clan si costituirono, dunque, in risposta alla difficile situazione demografica e verosimilmente nelle regioni più densamente popolate, dove le bande dei Sapiens vivevano a stretto contatto e con l’unica prospettiva di trovare un territorio libero solo a condizione che scompaia il gruppo che vi risiede. Stando così le cose, le principali alternative possibili erano tre: o si stabilivano fra le bande rapporti amichevoli e solidali stabili e duraturi, o ci si faceva guerra fino all’ultimo sangue, oppure bisognava sperare che la banda rivale sparisse per una qualsiasi ragione. Il clan costituì la prima di queste alternative, ma la sua affermazione dovette essere tutt’altro che facile. Ignoriamo le precise modalità di costituzione del clan, dal momento che il Sapiens non ci ha lasciato alcun documento al riguardo, ma possiamo immaginarle.
Come nasce un clan?
Immaginiamo una regione geografica del Vicino Oriente abitata da dieci bande di Neandertal e dieci di Sapiens, che, da tempo, vivono a stretto contatto e fra le quali un lungo periodo di abbondanza ha favorito rapporti di buon vicinato. Supponiamo che fra le due specie ci sia almeno questa differenza: i Neandertal sono più chiusi e accettano di accoppiarsi solo all’interno della stessa banda, i Sapiens, invece, sono più socievoli e tollerano l’accoppiamento incrociato fra membri di bande diverse. Col sopraggiungere della scarsità, le bande neandertal tendono a chiudersi sempre più in se stesse e si lasciano andare in manifestazioni di reciproca aggressività; mentre, fra i Sapiens, i legami di sangue, che si sono stabiliti nel corso degli anni precedenti, si oppongono a tale chiusura e, poiché la crisi non è tanto grave da spezzare ogni legame parentale, nonostante le avversità, le diverse bande conservano i buoni rapporti e si dispongono alla cooperazione e al mutuo soccorso. Ebbene, a mio giudizio, il fattore che, alla distanza, ha avvantaggiato le bande sapiens è da individuare nelle loro pratiche esogamiche, che la natura non ha mancato di selezionare.
Importanza dell’esogamia
Per comprendere l’importanza dell’esogamia, bisogna comprendere il significato di matrimonio in termini antropologici. “Il matrimonio è nella sua essenza una tecnica di esportazione verso l’esterno; tratta con i vicini, apre il gruppo familiare chiuso ad altri gruppi scambiando la sua materia prima più rara e pregiata: le donne” (FERRAROTTI 1986: 121). Il matrimonio è, dunque, essenzialmente un fatto sociale e, pertanto, l’esogamia favorisce lo sviluppo di relazioni fra gruppi diversi. “Nelle società più agitate esse allargano l’area all’interno della quale un individuo può contare su un’accoglienza pacifica. In quelle in cui regna l’ordine, invece, le alleanze matrimoniali possono essere utilizzate per ottenere ricchezza, potere o promozione sociale” (MAIR 1976: 37). “Il vantaggio più semplice che si possa cercare in un’alleanza matrimoniale è dato dalle relazioni pacifiche con un gruppo che costituirebbe altrimenti un potenziale nemico” (MAIR 1976: 93). Detto in altri termini, “spesso la norma dell’esogamia costringe gli uomini a trovare una moglie tra i loro nemici reali o potenziali; li obbliga ad ampliare i loro orizzonti sociali, e a stringere rapporti più o meno amichevoli con persone potenzialmente ostili al di fuori del loro gruppo” (BEATTIE 1978: 175).
Per millenni la pratica dell’esogamia si è ripetuta come uno dei tanti comportamenti istintivi vantaggiosi per la sopravvivenza finché, grazie al suo sviluppo cerebrale, il Sapiens è riuscito ad acquistare una qualche coscienza di quel fenomeno e ad intuire che l’imparentamento con gruppi diversi era cosa conveniente, anche se non sapeva spiegarsene la ragione. Da quel momento i padri cominciavano ad insegnare ai figli che, se volevano avere più probabilità di sopravvivere, dovevano smettere di accoppiarsi all’interno della famiglia o della banda. Col passare del tempo la nuova tendenza diventò la regola per il Sapiens e quasi nessuno più si accoppiava all’interno della banda e tanto meno della famiglia. Il nuovo costume, che noi conosciamo col nome di tabù dell’incesto, diventò uno dei più importanti segni distintivi del Sapiens nei confronti del Neandertal. “La proibizione dell’incesto stabilisce semplicemente che le famiglie (comunque siano esse definite) possono stabilire vincoli matrimoniali solo al loro esterno e non al loro interno” (LÉVI-STRAUSS 1974: 167). È una spinta a superare gli angusti limiti della famiglia e aprirsi agli altri, creando così gruppi sociali più ampi.
Fu grazie alla pratica dell’esogamia, che le bande sapiens confinanti poterono intavolare rapporti stabili fra loro, anche se i soli legami che contavano continuavano ad essere quelli parentali. Il padre rimaneva legato al figlio e il fratello al fratello ma, se il figlio o il fratello stringevano legami di sangue con una famiglia di una banda confinante, questi legami finivano per coinvolgere, in qualche misura, tutti i membri delle due famiglie e delle due bande. Così, di fatto, il gruppo di banda superava i propri limiti naturali e si allargava fino a comprendere 5-600 membri. Una comunità di tali dimensioni non si era mai vista prima e comportava nuove sfide. Il principale problema risiedeva nel fatto che le dimensioni della neo-banda risultavano così estese da rendere aleatori i rapporti ravvicinati fra tutti i membri e il legame di parentela cominciava ad assumere un significato nuovo: ci si sentiva legati non solo ai figli, ma anche alle famiglie con le quali i figli si erano, a loro volta, imparentati, anche se mancava il contatto ravvicinato e costante, e si stabilivano delle reti relazionali che superavano gli angusti confini della banda. Si venne a costituire, insomma, una nuova forma di vincolo, che possiamo definire quasi-simbolico, dico «quasi» perché l’uomo non aveva ancora sviluppato un linguaggio evoluto, né un elevato livello di astrazione. Il Sapiens doveva imparare ad adattarsi alla nuova situazione.
Possiamo parlare di proto-clan in riferimento a questo nuovo gruppo, che si fonda su un legame di parentela più allargato, non più concepito come semplice legame biologico, ma anche come valore culturale, seppure ancora solo a livello intuitivo e senza una chiara coscienza. Il proto-clan esprime il bisogno di superare gli angusti limiti della famiglia, ma rimane ancora un gruppo di tipo familiare e conserva tutti i limiti della famiglia. Si tratta, in sostanza, di una società instabile, capace di rimanere unita nei momenti di abbondanza e di relativa scarsità, ma che rischia di dissolversi in caso di crisi grave. Fino a quando non sarà trovato un legame diverso da quello parentale, ma altrettanto forte, non sarà possibile assicurare stabilità alle società umane.
Lo sviluppo del linguaggio simbolico e nascita della religione
La svolta decisiva avvenne intorno a 45 Kyr fa, quando, grazie ad un ulteriore sviluppo del cervello, il Pre-sapiens diventa autocosciente e capace di produrre un linguaggio di tipo umano, tanto perfezionato da consentirgli di manipolare ed esprimere concetti astratti e dare un significato culturale alle cose. Queste acquisizioni decretarono la fine del Pre-sapiens e la nascita del Sapiens, ossia dell’uomo moderno, che era ormai pronto a realizzare un nuovo tipo di società, la società di clan appunto. Il Neandertal non fu mai capace di giungere a tanto.
Adesso l’uomo si rendeva conto di vivere in un mondo in cui tutto poteva accadere e dove era impossibile prevedere il futuro. “Siamo sempre in bilico fra vita e morte, salute e malattia, ricchezza e miseria, distribuite nella specie umana da cause segrete e sconosciute, che operano spesso in modo inatteso sempre inesplicabile” (HUME 1994: 59). Fu proprio la consapevolezza di questa incertezza che, secondo Hume, diede origine alla religione. Non possiamo dire con certezza se Hume abbia ragione, ma non possiamo nemmeno dire che abbia torto. Personalmente propendo a credere che le cose siano andate proprio così, che clan e religione si siano sviluppate congiuntamente, grazie al linguaggio simbolico e, per capire in che modo ciò sia avvenuto, immaginiamo di rivivere gli eventi che ebbero luogo in una piccola regione del Centro Africa circa 45 Kyr fa.
Una storia immaginata di 45 mila anni fa
In quel tempo una serie impressionante di calamità naturali si abbattè su un’area, dove erano insediate tre bande di Sapiens. Da giorni una pioggia battente aveva ingrossato il fiume, che era straripato inondando i campi e travolgendo vegetazione, animali e uomini. Cessata la pioggia, il sole era tornato a splendere, ma il territorio appariva ridotto ad una desolante superficie melmosa, dove era impossibile trovare cibo. Tre quarti della popolazione era perita e solo i più forti erano riusciti a trovare scampo nelle vicine alture. Ma le difficoltà non erano finite. La terra, infatti, prese a tremare e, come se non bastasse, dopo poco tempo, la grande montagna cominciò ad emettere tremendi boati e a lanciare verso il cielo fuoco e fumo. Cosa stava succedendo? Perché la natura era così infuriata? Sarebbero periti anche i pochi sopravvissuti? Era possibile fare qualcosa per porre fine a quell’inferno? Naturalmente nessuno era in grado di spiegare quei fenomeni e nessuno sapeva che pesci pigliare.
L’inquietudine aleggiava sui superstiti, insieme a un senso di impotenza, che, a tratti, si tramutava in panico. Le tre bande rischiavano di scomparire. Sospinti dalla più cupa disperazione i singoli individui si abbandonavano a comportamenti irrazionali e si muovevano a vuoto, esibendo comportamenti privi di misura e di scopo. Senza più alcun senso della realtà e del dovere, senza più valori e senza certezze, dimenticando i legami che li univano, le madri trascuravano i figli e i fratelli calpestavano i fratelli. Aggiungendo danno al danno, le bande si sarebbero avviate sicuramente ad una rapida fine se, per fortuna, in una di esse, chiamiamola Alfa, qualcuno non avesse saputo esibire dei comportamenti gravidi di conseguenze per il futuro della specie.
I bambini piangevano e, insieme a loro, anche molti adulti. Un giovane maschio, agitando le braccia verso il cielo coi pugni serrati e fissando l’orizzonte con gli occhi insanguinati dalla rabbia e dalla paura, urlava al vento parole di fuoco, come se volesse sfidare il misterioso autore di quei misfatti, chiunque egli fosse. “Vattene – gridava. Non mi fai paura”. Altri se ne stavano seduti in circolo, tenendosi per mano, lo sguardo perso nel vuoto, sgomenti, in attesa del prossimo evento e della sicura fine. Poi cominciarono a muovere ritmicamente il tronco in avanti e intonarono una specie di canto, che aveva pressappoco il seguente significato: “Cosa abbiamo fatto di male per meritare questa fine? Perché dobbiamo morire?” E ripetevano continuamente questo lamento, con voce sommessa, mentre, il giovane maschio continuava ad imprecare e, di tanto in tanto, lanciava nell’aria un sasso, un ramo, o altri oggetti a portata di mano come per tenere lontano quell’”invisibile nemico” che si accaniva contro di loro.
Il più anziano del gruppo girovagava costernato per il campo alla ricerca di chissà che cosa, quando si imbatté in una carogna di aquila in parte ricoperta di fango. La fissò a lungo ed, infine, ebbe un’idea. Con l’apparente calma tipica di chi è disperato, raccolse un colorante rosso che aveva adocchiato poco prima, dimenticato da chissà chi nella cavità di una roccia, e se ne cosparse il corpo, poi si procurò un robusto bastone provvisto di un’estremità appuntita e con esso infilzò la carogna subito al di sotto della gabbia toracica, quindi la sollevò verso il cielo agitando il braccio, come se volesse intimorire il nemico invisibile e allontanarlo. Dopo un po’, preso dalla frenesia, iniziò a correre all’impazzata in lungo e in largo nel campo base, continuando ad agitare il bastone e urlando a più non posso. Continuò così per qualche minuto, poi si allontanò, sempre di corsa, verso la sommità della collina, non cessando di agitare la sua aquila e di urlare al cielo, finché gli altri non lo videro più. Tutti avevano scorto in quella scena qualcosa di eccezionalmente impressionante e ne erano rimasti profondamente turbati.
Il caso volle che, pressappoco a partire da quel momento, la situazione cominciasse a ritornare gradualmente alla normalità e le acque del fiume iniziassero a rientrare all’interno dei margini, e, mentre il fango andava asciugandosi, la terra smetteva di tremare e la grande montagna sembrava essersi placata. Col trascorrere dei giorni, insomma, la natura ritornava ad essere amica e ad offrire cibo in abbondanza. Evidentemente il «nemico invisibile» si era allontanato. Ma perché lo aveva fatto? Aveva avuto paura delle minacce? O si era impietosito per i lamenti? Nessuno lo poteva sapere. Così come nessuno poteva sapere se ci fosse davvero un nemico invisibile e chi esso fosse in realtà.
Comunque stessero le cose, cessato il pericolo, la gente poteva riprendere la vita di sempre, che, come al solito, era caratterizzata da un susseguirsi di periodi favorevoli e periodi avversi. Rispetto al passato, però, adesso si poteva notare una rimarchevole novità: ogni volta che incombeva un pericolo o si profilava una nuova crisi, c’era sempre qualcuno che si ricordava della scena dell’aquila e la riproponeva, richiamando la partecipazione dell’intera popolazione e riscuotendo un successo costante. A poco a poco l’ostentazione dell’aquila infilzata ad un’asta divenne la risposta ordinaria agli eventi calamitosi che si abbattevano sulla banda Alfa o semplicemente l’antidoto al nemico invisibile, al quale si ricorreva ogni qualvolta si profilava all’orizzonte qualcosa di minaccioso, di qualunque cosa si trattasse, di un evento atmosferico, di un’epidemia, di un conflitto fra bande o di una morte inspiegabile. In ogni caso, c’era sempre qualcuno che si ricordava di piantare nel centro del campo un’asta con il corpo di un’aquila infilzata e tutti credevano che quel gesto servisse a tenere lontano il pericolo. Tutti confidavano nella protezione dell’aquila. Qualcuno vi danzava attorno, altri la imploravano, altri cantavano in suo onore. Talora il simulacro veniva staccato dal suolo e portato in giro per il campo come per renderlo più visibile ed efficace, mentre qualcuno urlava al vento frasi di rabbia e di sfida, rivolte al nemico invisibile, allo scopo di creare intorno a lui un clima il più possibile ostile e indurlo a rivolgere altrove la sua attenzione. Al di là delle varianti comportamentali, rimaneva il fatto che l’aquila era divenuta non solo il protettore, ma anche il simbolo stesso della banda Alfa, e ad essa gli abitanti si rivolgevano in caso di difficoltà, ripetendo, in un modo che andava sempre più ritualizzandosi, gli stessi comportamenti delle origini.
Funzioni della religione
La religione nasce come magia e “la magia può essere considerata la radice della religione” (ABDALLAH, SORGO 2001: 14). Dal punto di vista antropologico, non c’è una vera e propria differenza fra le due forme di credenza e non è vero che la magia è irrazionale, mentre la religione non lo è. In realtà, come sostiene De Martino (1973), la magia non è affatto irrazionale, né una semplice forma di superstizione, ma svolge le stesse funzioni della religione. Secondo De Martino, la magia ha una funzione storica ben precisa e positiva, che è tesa ad annullare quelle forze naturali incontrollabili che minacciano di schiacciare ed annullare l’uomo. In pratica, la magia soccorre l’uomo e lo rassicura contro queste forze sovrastanti, precedendo e preparando le forme religiose più mature. Abbiamo visto come la magia/religione riescano a dare risposte nei momenti di crisi. Ma essa non serve solo nei momenti di crisi.
L’uomo, osserva Feuerbach, ha desideri infiniti e, poiché non ha il potere di realizzare ciò che vuole, ricorre alla sua immaginazione, che è parimenti illimitata, e, attraverso essa, trova il modo di appagare il suo bisogno. Più specificamente, ricorrendo alla propria fantasia, l’uomo crea la divinità e, attraverso essa, diventa onnipotente. Per definizione, infatti, “gli dèi sono in grado di fare quello che gli uomini desiderano” (FEUERBACH 1994: 33). Io ho seminato e desidero un raccolto abbondante, ma questo non dipende da me, dipende da un dio. Prego allora quel dio che mi dia un raccolto abbondante, e così soddisfo il mio desiderio. “Il desiderio è l’origine, è l’essenza stessa della religione – l’essenza degli dèi non è altro se non l’essenza del desiderio... Chi non ha desideri, non ha nemmeno dèi” (FEUERBACH 1994: 32).
Alimentato dal desiderio, lo spirito religioso si esprime in un modo che è condizionato da fattori culturali e dalle conoscenze. Quaranta Kyr fa, gli uomini guardare con stupore a tutto ciò che li circonda e tendono a credere che le cose siano soggetti viventi, dotati di potere e di volontà. “Senza eccezioni ogni società primitiva accetta il postulato dell’esistenza degli spiriti e dei poteri soprannaturali. Ogni società attribuisce un’intelligenza emotiva agli spiriti e ritiene che essi rispondano con benevolenza o disapprovazione alle particolari azioni degli esseri umani. I primitivi sostengono che in alcuni o in parecchi aspetti importanti della vita, l’uomo è subordinato alla volontà degli spiriti e che la vita deve essere in armonia con i dettami di questi. Tali presupposti sono universali” (HOEBEL 1973: 368).
Magia e religione sono dunque strumenti, di cui l’uomo si serve per raggiungere i suoi scopi e per realizzare i suoi progetti, ma quali sono le loro funzioni e perché esse sono così importanti da giustificarne una diffusione universale? Al loro apparire, le religioni non servono a santificare i fedeli e a renderli meritevoli di un premio nell’aldilà, servono piuttosto a proteggersi dagli influssi malefici degli spirti. “Quasi sempre le religioni dei primitivi sono apotropaiche; lo scopo cui si tende è quello di allontanare gli spiriti, non di accostarsi maggiormente a loro” (BEATTIE 1978: 324). In questo senso le pratiche rituali costituiscono una difesa da pericoli altrimenti inevitabili. Nello stesso tempo, magia e religione forniscono “risposte soddisfacenti a problemi altrimenti insolubili” (BEATTIE 1978: 330), annullando gli effetti devastanti dell’ignoranza e proponendosi come un solido punto di riferimento.
Riassumiamo. La magia-religione svolge anche una funzione rassicurante in situazioni minacciose. “Si sa che le persone reagiscono spesso a tensioni insolite o particolarmente violente ricorrendo ai mezzi magico-religiosi della loro cultura. Non soltanto l'assiduità ai servizi religiosi aumenta nei paesi occidentali in tempo di guerra o di crisi, ma si ha anche un forte incremento nel ricorso a chiromanti, spiritisti, e ad altri individui che assicurano consolazioni di tipo irrazionale” (BEATTIE 1978: 359). Oltre ad offrire sicurezza e certezze, esse contribuiscono a tener viva la speranza nonostante tutto, aiutano a vincere la paura, ad evitare il panico e a mantenere la calma, anche di fronte alle peggiori catastrofi, favoriscono la coesione del gruppo e, per di più, rendono possibile la definizione del bene e del male e la costruzione di un’etica sociale. Inoltre, magia e religione surrogano il diritto e, in tal modo, favoriscono l’ordine sociale. “Le credenze magiche e religiose possono servire [infatti] come sanzioni sociali, a causa del timore di subire una punizione soprannaturale se le norme approvate vengono violate” (BEATTIE 1978: 330).
Il passaggio dalla banda al clan
La religione rispondeva anche alla forte esigenza del Sapiens di ampliare le dimensioni della società di banda. Grazie al vincolo religioso, infatti, non era più necessario essere parenti, o abitare a stretto contatto, per far parte della stessa etnia, ma era sufficiente mettersi sotto la protezione dello stesso dio. Così il cemento culturale venne a risolvere il problema della coesione sociale fra gruppi non imparentati e consentì, già a partire da 45 Kyr fa, la costituzione di forme sociali sempre più estese e complesse. Fu la religione, dunque che consentì il passaggio dalla società di banda a quella di clan. A differenza della banda e grazie alla religione, il clan non doveva più la propria coesione solo ai legami di sangue e ai rapporti di vicinanza fisica, ma anche, e sempre di più, al riconoscimento di un simbolo culturale comune, il simbolo clanico, che in seguito verrà chiamato «dio», di cui tutti i membri del gruppo si ritenevano figli.
La consolidazione della società clanica
La costituzione della società clanica non ebbe effetto immediato. Non tutti, infatti, erano disposti a riconoscere i non-parenti come membri del gruppo e continuavano a trattarli come estranei o potenziali nemici da cui guardarsi. Per molto tempo, il rischio della disgregazione del clan appena costituito rimase elevato e furono necessari altri passi avanti nella strada intrapresa, prima di giungere ad una situazione stabile, cosa che potrebbe essere avvenuta intorno a 40 Kyr fa, dopo una serie di piccoli passi, lenti e graduali. Fu probabilmente la paura a giocare il ruolo decisivo.
I problemi più gravi che l’uomo clanico si trovò ad affrontare furono quello della malattia e, soprattutto, quello della morte. Qualunque cosa egli facesse, non riuscirà a vincere la morte. Che cos’era la morte? Perché l’uomo moriva? Qual era il suo destino dopo la morte? Ovviamente nessuno aveva risposte a queste domande e per molto tempo la morte continuò ad incutere stupore e paura, ma, grazie alla religione, l’uomo cominciava ad esercitare un certo controllo anche su quel terribile evento e ad esorcizzare la paura.
Che cosa poteva succedere se alcuni membri del clan non accettavano di credere nel dio e di mettersi sotto la sua protezione? Nessuno lo sa, ma è sufficiente che si profilasse un periodo di crisi e si diffondesse l’opinione che il dio era in collera coi suoi figli ribelli, perché tutti avvertissero l’esigenza di conformarsi alla volontà del dio offeso e placare così la sua ira. Ma qual era questa volontà? Dal momento che le divinità non parlano alla stessa maniera che gli uomini, era necessario trovare qualcuno in grado di decifrare i segni del dio e tradurli in comandi comprensibili per tutti. Si giunse così all’affermazione della figura dello sciamano. La volontà del dio era ciò che lo sciamano comandava e, qualunque fosse quella volontà, immancabilmente lo sciamano ribadiva ciò che gli altri sapevano già e volevano sentirsi ripetere, e cioè che il dio avrebbe protetto il clan solo a condizione che tutti i suoi membri avessero rispettato la sua volontà, mentre, in caso contrario, non solo avrebbe potuto rifiutare il suo aiuto, ma anche passare dalla parte del «nemico invisibile», con conseguenze negative e imprevedibili per tutto il clan e comunque catastrofiche. Fu la paura di quel che sarebbe potuto accadere al clan, qualora il dio gli avesse negato i suoi favori, a indurre tutti i membri di quel clan a sottomettersi senza condizioni ai comandi dello sciamano. Quando ciò avvenne, il clan era ormai divenuto una società stabile, governata dal dio attraverso la persona dello sciamano, e ciò segna l’inizio della straordinaria avventura culturale dell’uomo.
La vita quotidiana del clan
Alla fine di un lungo periodo (45-40 Kir fa), ogni clan ha il proprio simbolo e si riconosce in esso. Così, accanto ai figli dell’aquila, ci sono i figli del falco, i figli del serpente, i figli del fiume, i figli della grande montagna, e via dicendo. La società clanica è così numerosa e si estende per un territorio così vasto che non ha precedenti, e ciò comporta nuovi vantaggi. La nuova società si regge su un fattore culturale molto semplice: benché molti dei suoi membri siano estranei e non si conoscano personalmente, tutti si comportano «come se» fossero fratelli, perché tutti si ritengono figli dello stesso Simbolo e tutti vedono in quel Simbolo il proprio antenato comune. La fondazione della società clanica costituisce dunque un prodotto del pensiero simbolico del Sapiens, è una costruzione culturale. La civiltà clanica caratterizzerà la preistoria dell’uomo per migliaia di anni e può essere considerata la prima forma di civiltà umana.
Come si vive nella società clanica? Quasi certamente in un modo non molto diverso da quello descritto a proposito della banda. L’intera popolazione rimane suddivisa in unità familiari o bande, ciascuna occupante un proprio territorio, dove pratica la caccia e la raccolta. La caratteristica fondamentale del clan è che tutte le famiglie che lo compongono si comportano come se fossero imparentate, anche se non lo sono veramente. In sostanza, il clan “è un gruppo i cui membri si considerano discendenti di un antenato comune leggendario o mitico, senza tuttavia poter (o voler) ricostruire una gerarchia precisa” (AUGÉ, COLLEYN 2006: 34).
L’affermazione della società di clan segna la nascita dell’uomo come animale culturale, e dunque del Sapiens. Da questo momento si andrà diffondendo il culto dell’antenato, il cosiddetto Totemismo, che contribuirà ad assicurare la coesione del gruppo, con conseguenze pratiche per la vita sociale assolutamente inedite e ricche di implicazioni per il presente ed il futuro. All’interno del clan ciascun individuo può spostarsi liberamente, avere contatti regolari con le diverse famiglie e stabilire con esse rapporti di solidarietà e mutuo soccorso. Abitualmente ciascuno raccoglie quanto basta per sé e la propria famiglia, ma, se qualcuno è stato sfortunato e ha raccolto cibo insufficiente, può rivolgersi ai suoi fratelli di clan, sicuro che non gli negherebbero il proprio aiuto, e nell’aspettativa che, a parti invertite, egli dovrebbe ricambiare il favore, secondo la logica dell’altruismo reciproco, che la natura non mancherà di selezionare.
Procurarsi il cibo di natura vegetale è un impegno relativamente semplice: nella maggior parte dei casi, è sufficiente raccogliere quanto è a portata di mano, oppure estrarre dal terreno un tubero servendosi di un bastone; talvolta è necessario ricorrere all’uso di un sasso per rompere il guscio di una noce o per tritare dei chicchi di orzo, e poco altro. Ben più impegnativo è procurarsi la carne: la cattura, l’uccisione e la macellazione di un animale richiedono strategie di gruppo, armi e utensili relativamente complessi da realizzare. I bastoni non sono di grande aiuto per dividere in parti una gazzella o una zebra, e nemmeno l’amigdala, per quanto affilata, da sola, permette di raggiungere risultati entusiasmanti. Si avverte l’esigenza di strumenti sempre più sofisticati ed efficienti. Qualcuno allora, aguzzando l’ingegno, collega fra loro le idee di bastone e di sasso e, servendosi di fibre vegetali, riesce a legare una pietra all’estremità di un bastone così da ricavarne un utensile o un’arma nuova, adatta, a seconda del peso e della forma del sasso e delle dimensioni del bastone, a vari usi: se il sasso è arrotondato si ottiene una mazza o martello, se è tagliente un’accetta, se è appuntito e il bastone allungato una lancia, e via dicendo. In ogni caso si tratta di utensili o armi più potenti e specifici rispetto al semplice bastone o alla semplice pietra. Se viene lanciata con maestria, una lancia è in grado di uccidere un animale o, quanto meno, di ferirlo in modo grave, sì da poterlo catturare dopo un breve inseguimento e senza eccessivi rischi. Per la macellazione, l’accetta si rivela un utensile ben superiore rispetto all’amigdala e consente un più agevole squartamento della preda. Di norma l’animale ucciso viene portato nel campo base, dove si svolge il rito della divisione. La carne viene mangiata cruda e subito: ancora nessuno è sfiorato dall’idea di costituire riserve alimentari, né si conosce l’arte dell’economia o il concetto di proprietà privata.
I rapporti tra gli individui e il territorio sono condizionati dalla disponibilità delle risorse: l’abbondanza di cibo favorisce la vita sedentaria, la scarsità il nomadismo. In ogni caso la gente del clan ignora la produzione di surplus e vive alla giornata, raccogliendo e consumando solo il cibo che è necessario per la pura sussistenza. Quando si accampa forma un piccolo villaggio, ma, se il cibo scarseggia, non esita a mettersi in marcia in cerca di posti migliori, ammesso che vi sia disponibilità di spazi. La disponibilità delle risorse condiziona anche i rapporti interpersonali e anche quelli tra famiglie e tra bande: l’abbondanza di cibo rende più facile lo scambio dei beni, il rispetto delle norme etiche e l’obbedienza alla volontà divina ma, quando arriva il periodo di magra, la terra produce poco e gli animali muoiono, allora i rapporti interpersonali si fanno più difficili e cominciano a manifestarsi in tutta la loro drammatica evidenza i segni dell’egoismo umano, che si traducono nella competizione per accaparrarsi le scarse risorse disponibili e possono talvolta tramutarsi in una spietata e crudele lotta per la sopravvivenza di se stessi e del proprio gruppo familiare.
Nei momenti critici la famiglia rimane l’ultimo baluardo nei confronti del pericolo dell’egoismo aggressivo e al suo interno continua a prevalere la cooperazione e l’altruismo, almeno fino a quando condizioni di scarsità estrema fanno sì che ciascuno pensi solo a se stesso e si imponga su tutto la suprema legge del più forte. Ma a questo si giunge solo raramente: il più delle volte il legame di sangue si rivela davvero tenace ed è sufficiente a mantenere unita la famiglia e si devono superare limiti estremi prima che il figlio levi la mano contro i genitori, o i genitori contro il figlio, o il fratello contro il fratello, ma quando ciò accade il gruppo è ormai prossimo alla fine. Ed ecco perché la famiglia finisce per rappresentare nell’immaginario collettivo il simbolo stesso della solidarietà e della socialità dell’uomo, un rifugio sicuro e un’oasi felice per l’individuo in un mondo altrimenti dominato dall’egoismo e dal principio di forza.
Il linguaggio simbolico
La società di clan non conosce ancora la gerarchia sociale. Non conosce nemmeno il lavoro come occupazione stabile e specifica e tanto meno la divisione rigida dei compiti e dei ruoli. Non ci sono classi sociali, né ricchi né poveri, né liberi né schiavi. Le distinzioni sociali sono basate principalmente sull’età (bambini, adulti e anziani), sul sesso (maschi e femmine), sul grado di parentela (madre, figlio, fratello, estraneo) e sull’appartenenza (fratelli di clan, stranieri), ma in nessun caso sono interpretabili come differenze di status o di classe. Non c’è spazio per la «scalata al potere» da parte di un individuo o di una famiglia.
Il cibo raccolto e la selvaggina vengono divisi fra i membri delle singole famiglie, probabilmente non in parti esattamente uguali, ma a ciascuno secondo le sue particolari esigenze e nel rispetto dei princìpi della solidarietà parentale, dell’altruismo reciproco e dell’etica sociale del momento. Il principio della forza rimane per lo più nascosto, ma non per questo è meno presente e operante. Il più forte può certo approfittare del più debole e fargli dei dispetti o soprusi per i più svariati motivi (opportunismo, invidia, affermazione di ruolo, gioco, malvagità, e altro), ma senza mai imprimere al proprio comportamento un carattere continuativo e aperto, per paura di essere giudicato negativamente dagli altri.
L’organizzazione sociale è debole e, in teoria, le singole famiglie sono autonome e indipendenti, ciascuna ha il medesimo peso politico all’interno del clan. Le disuguaglianze ammesse sono quelle legate al sesso, all’età e alle capacità individuali, che, di norma, si misurano in termini di forza fisica, ma che, in ogni caso, non conferiscono uno status sociale superiore. Alle donne viene riconosciuta la loro impareggiabile funzione riproduttiva, che è compensata dalla maggiore attitudine degli uomini di esplorare il territorio. Sicuramente, gli anziani costituiscono un peso per il gruppo, ma vengono apprezzati per la loro lunga memoria e la loro maggiore esperienza, che sono ritenute di grande utilità per il gruppo. L’anziano viene visto come il depositario di una saggezza superiore, e il fatto non deve sorprendere, se si considera che ci troviamo in una società dove la tradizione viene trasmessa da una generazione all’altra per via rigorosamente orale e il senso della storia è affidato unicamente alla memoria. L’anziano è proprio colui che rappresenta la massima estensione del presente nel passato. Da qui il rispetto per la sua figura e il suo specifico ruolo, che acquista particolare rilevanza sociale nei momenti critici, quando il bisogno di sicurezza raggiunge il suo massimo livello. In questi casi, aggrapparsi ai valori della tradizione può essere visto come l’unico modo per sentirsi rassicurati.
Chi, approfittando di un favorevole squilibrio di forze, commette un’ingiustizia ai danni di chiunque altro e a proprio vantaggio, è indotto dal gruppo a provare vergogna e ad esibire una condotta riparatrice. Nessuno, infatti, può ritenersi tanto forte da poter fare a meno degli altri e, isolatamente, anche il più forte vede drammaticamente ridotte le proprie probabilità di sopravvivere. A nessuno, dunque, conviene opporsi al gruppo e tutti devono scendere a patti con esso. Né è facile bluffare: tanto a livello di famiglia quanto a livello di clan ci si conosce a tal punto da riuscire pressoché impossibile attuare un inganno sistematico. Chi è ben visto dagli altri ha molti più vantaggi di chi non lo è, e anche il più forte trova più conveniente piegarsi davanti a questa superiore legge del gruppo ed usare la sua forza nell’interesse collettivo piuttosto che nel proprio. Perfino il più forte deve inchinarsi di fronte a questa legge suprema e scendere a patti con gli altri, far loro delle concessioni, dividere con loro la sua preda, mimetizzare la sua forza dietro forme comportamentali che favoriscono la vita sociale. “Nella società dei cacciatori-raccoglitori non esistono maschi alfa, in altre parole non c’è un maschio dominante di rango elevato che decida che cosa farà e dove andrà il gruppo” (STANFORD 2001: 164). In queste società “Il consenso è tutto” (STANFORD 2001: 167). L’altruismo, dunque, ripaga più che l’egoismo, e così, il più delle volte, la forza viene usata al servizio del gruppo e la solidarietà trionfa.
Non si avverte ancora l’esigenza di un diritto formale e i conflitti che si sviluppano in seno al clan vengono affrontati secondo l’ottica delle regole consuetudinarie del gruppo e dei legami parentali. Il diritto si basa sui rapporti di parentela e sulla coscienza di appartenenza e viene attuato sulla base di una libera interpretazione dei fatti da parte delle singole famiglie. Se uno si sente minacciato da un cugino, può contare sull’aiuto dei suoi fratelli mentre, se è minacciato da un estraneo, è tutto il clan ad assumersi la sua difesa: nel primo caso può aver luogo una faida, nel secondo caso uno scontro fra clan.
Si ignora l’idea di proprietà privata. La terra è di tutti e nessuno possiede alcunché a titolo personale, fatta eccezione delle proprie qualità individuali, anche se, lo abbiamo visto, perfino queste devono essere messe a disposizione del gruppo. Non c’è nemmeno la mentalità di costituire riserve alimentari e gli stessi alloggi, così come l’abbigliamento, sono rudimentali e non costituiscono certo un bene da desiderare o rivendicare. Fino a che rimane viva e operante questa logica comunitaria, non può esserci spazio alcuno per l’affermazione della sfera individuale, di cui la proprietà privata e il principio di forza costituiscono gli elementi più caratterizzanti.
Così, anche la logica del potere è sconosciuta. Non c’è un capo e nessuno, ad eccezione dei bambini, deve obbedienza ad alcun altro. Le decisioni comuni vengono prese da tutti o da colui che, in quel particolare momento e per quel particolare compito, sembra più adatto. Non ci sono leggi, tranne certi princìpi resi ovvi da una millenaria tradizione, come il rispetto dei confini, il tabù dell’incesto, gli obblighi di solidarietà e l’obbedienza alla volontà divina.
I maschi adulti del clan percorrono l’intero territorio da un capo all’altro non solo in cerca di cibo, ma anche per mantenere i contatti con gli altri gruppi e scambiarsi informazioni, per es. su una sorgente d’acqua appena scoperta, sull’individuazione di tracce di un animale ferito, sui rapporti coi clan vicini, su avvenimenti interni alle singole famiglie, come una nascita o una morte, e via dicendo. Le femmine in età fertile trascorrono gran parte della propria esistenza nell’attività riproduttiva e nella cura della prole, perciò se ne stanno prevalentemente nel campo base o nelle sue immediate vicinanze, insieme ai soggetti più anziani in condizioni fisiche precarie. I bambini si comportano secondo l’età: fino ai due anni restano legati alla madre, mentre, a partire da tale età, cominciano ad allontanarsi progressivamente da lei trascorrendo la giornata prevalentemente nel gioco, nell’imitazione degli adulti e nell’esecuzione di comandi. Una società orizzontale, dunque, tale è la società di clan, nella quale il singolo, essendo altamente sensibile a ciò che gli altri si aspettano da lui, mette il frutto della propria opera e del proprio talento a disposizione della collettività in un’ottica di solidarietà parentale e clanica, che, possiamo dire, caratterizza gli ultimi 10 Kyr del Paleolitico medio.
Il pensiero simbolico e la cultura
Nel complesso, nella società di clan, la vita del Sapiens si svolge ancora in modo sostanzialmente animalesco, e non presenta apparenti differenze con la società di banda. Ma così non è: il pensiero simbolico e il sentimento religioso conferiscono al clan una dignità umana che la banda non ha, e ciò ha importanti conseguenze.
Anche di fronte alle più terribili sciagure, infatti, rimane sempre viva una speranza, la speranza che, anche in extremis, un dio possa intervenire e cambiare il corso delle cose, ed è in questa speranza irriducibile che può essere individuato uno dei principali elementi distintivi e di forza del clan nei confronti della banda e della famiglia.
La civiltà clanica sarebbe impensabile senza la capacità da parte dell’uomo di manipolare concetti astratti per mezzo di un linguaggio articolato e di procedere per rappresentazioni simboliche. Il linguaggio può essere considerato il Simbolo fondamentale, dal quale dipendono tutti gli altri simboli, compreso quello che abbiamo chiamato «simbolo clanico». In quanto società «simbolica», il clan nasce dal linguaggio. In questo senso possiamo affermare che il linguaggio è la risposta vincente del Cro-Magnon ai problemi di sopravvivenza. Grazie al linguaggio è finalmente possibile realizzare una società di tipo culturale, dove gruppi estranei convivono come se fossero un’unica famiglia e dove ogni individuo può comunicare a chiunque altro un grande numero di informazioni ed esprimere concetti astratti del tipo «io sono figlio dell’aquila», oppure «noi siamo fratelli», oppure «la grande montagna è in collera contro i propri figli», e via dicendo. In ultima analisi, il clan è la prima società veramente «umana», nel senso che è la prima a non essere fondata soltanto su legami naturali, ma anche su valori simbolico-culturali, che sono riconducibili al linguaggio.
Ora, il linguaggio ha la proprietà di evolversi in modo relativamente rapido e, se inizialmente si limita a dare un nome alle cose, col passare del tempo, anche i sentimenti, come la collera, la paura, l’ira, la tristezza, l’amore, la fiducia e la speranza, possono avere un nome e rappresentare un valore. Così, non solo il clan trae origine dal linguaggio: esso si alimenta dal linguaggio e favorisce il linguaggio. Tra clan e linguaggio si stabilisce, insomma, un rapporto di mutua dipendenza e l’uno non è concepibile senza l’altro. In altri termini, se da una parte il linguaggio simbolico genera la società di clan, dall’altra parte la società di clan dà un forte impulso allo sviluppo del linguaggio e crea le condizioni per un inarrestabile sviluppo delle società umane.
Il clan rappresenta il momento di massimo equilibrio fra natura e cultura, e quando il Sapiens sarà in grado di andare oltre la società di clan, da quel momento, natura e cultura procederanno in modo relativamente indipendente e con velocità differenti, che inclineranno sempre più a favore della cultura, e il Sapiens diventerà animale culturale per eccellenza. Quest’animale culturale siamo noi.
Cos’è cambiato, dunque, nel clan rispetto al gruppo di banda che l’ha preceduto? Nulla e tutto. Non è cambiato nulla perché il Sapiens continua a vivere all’interno del proprio gruppo familiare, come animale fra gli animali. È cambiato tutto perché il clan non è più una semplice società biologica e naturale, bensì anche una società culturale basata sul pensiero simbolico e sul linguaggio. Il maggior numero dei membri e la maggiore estensione territoriale del clan offrono sì vantaggi all’individuo rispetto alla società di famiglia e di banda ma, tutto sommato, si tratta di piccoli vantaggi. Ben più consistente è invece il vantaggio apportato dall’elemento culturale, che dischiude le porte ad uno sviluppo potenzialmente ampliabile all’infinito e chiama l’uomo ad aprirsi all’estraneo e all’ignoto, dando così inizio a quella straordinaria avventura del Sapiens, che continua ancora ai nostri giorni.
Se è vero che la cultura conferisce al Sapiens la libertà di decidere della propria vita e gli apre la prospettiva di una crescita illimitata, è anche vero che questa libertà implica l’assunzione di pesanti responsabilità, alle quali il Sapiens non è certo abituato e delle quali, per il momento, non è nemmeno cosciente. Avendo imparato a camminare con le sue proprie gambe e a costruire da sé il proprio futuro, di fatto l’uomo è avviato ad essere il futuro signore della terra, anche se ancora non lo sa. Durante il Paleolitico medio egli è ancora un animale fra i tanti, e per giunta non dei più forti. La sua cultura simbolica è sì potenzialmente un’arma vincente, ma è ancora povera di contenuti. Egli può decidere del suo destino, ma non ha le conoscenze necessarie per giungere a decisioni ponderate e responsabili. È libero, ma non sa come muoversi e dove andare. Questa sua condizione costituisce comunque una novità assoluta e rappresenta quella che possiamo chiamare la data di nascita dell’uomo moderno. Da questo momento il suo futuro sarà legato alla sua capacità di trovare risposte alle sfide che lo attendono. In che modo l’uomo affronterà queste sfide è quello che vedremo nei capitoli seguenti.
8. Città e Stati (8 - 5.5 mila anni fa)
15 anni fa
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