Finché la terra è scarsamente popolata, i gruppi umani possono scegliere il luogo in cui insediarsi ed espandersi a macchia d’olio, senza dover ricorrere alla forza. Ma poiché, nel corso del Mesolitico, la popolazione umana ha “ormai raggiunto tutte le regioni del mondo, tranne le più inaccessibili” (SYKES 2003: 145), e cioè le isole della Polinesia, il Madagascar, l’Islanda e la Groenlandia, diviene sempre più difficile trovare luoghi ospitali liberi e, sempre più frequentemente, si rende necessario accettare il rischio o di lunghi e avventurosi viaggi in cerca di luoghi lontani e sconosciuti o relazionarsi con altre tribù, allo scopo di cooperare, competere o configgere. La società tribale dispone dei requisiti necessari ad affrontare con successo tutte queste opzioni, che, da parte loro, la inducono a darsi un’organizzazione sempre più solida. Il risultato è che le società umane cominciano a cambiare in modo deciso.
In genere, le norme del buon vicinato funzionano egregiamente e garantiscono la pace solo quando le cose vanno bene, ma tendono a rivelarsi insufficienti nei momenti di crisi, quando cioè, dopo un periodo di abbondanza, in cui la popolazione si è accresciuta, improvvisamente la terra produce poco e inizia un periodo di scarsità. È la solita legge di Malthus: “Se i membri di una tribù diventavano troppo numerosi e la proprietà nella steppa non era più in grado di sfamarli tutti, una parte se ne andava alla ricerca di nuovo spazio vitale, o facendo sloggiare qualcuno più debole, o mettendosi al servizio di chi era più forte” (VARDIMAN 1998: 46).
Un elemento caratteristico della tribù è che essa non ha né la forza, né l’interesse a perseguire una politica di conquista e, pertanto, quando si impegna in uno scontro armato, lo fa con obiettivi circoscritti. Di norma, singoli clan attuano incursioni, rapine, razzie, saccheggi, stragi, ma solo allo scopo di procurarsi cibo e risorse di cui si sentono carenti. Essi, invece, non praticano guerre di conquista, né politiche egemoniche, perché non dispongono né dei mezzi, né della cultura per farlo. Ne consegue che gli scontri fra tribù non prevedono né vincitori né vinti e non prevedono nemmeno una fine. Gli scontri tribali consistono, infatti, in un susseguirsi di attacchi e contrattacchi per procacciarsi risorse o per vendicarsi di offese subite, e tutto ciò per un tempo indeterminato. Questo quadro, che ricorda quello dell’homo homini lupus di hobbesiana memoria, caratterizza l’intero mesolitico, anche se non finirà con esso.
La crisi demografica del Mesolitico
Nel Mesolitico si realizzano, per la prima volta, condizioni demografiche tali da rendere difficile lo spostamento di gruppi a causa della scarsa disponibilità di territori liberi, con la conseguenza che i diversi clan sono costretti a stabilire fra di loro dei rapporti stabili. Da questo momento, la sopravvivenza delle comunità claniche o tribali dipende prevalentemente dalle risorse territoriali e, in secondo luogo, dal tipo di rapporti con le popolazioni confinanti. Una prolungata siccità, un cataclisma, un incendio, un’infestazione, un eccessivo incremento della popolazione, o altri eventi occasionali avversi, possono mettere in serio pericolo la sopravvivenza delle famiglie, che non sono ancora abituate a produrre un surplus. Quando le cose vanno male, gli anziani sono abituati dalla una lunga tradizione a ordinare di levare le tende e partire alla ricerca di un posto migliore. Ma adesso la situazione è cambiata e bisogna tenere conto dei vicini. Questa circostanza tende a ripetere sempre più spesso ed è di tale gravità da richiedere soluzioni inedite.
Per consuetudine, ogni qualvolta si senta in pericolo, una tribù deve interpellare il dio tutelare, non solo per comprendere ciò che sta realmente accadendo, ma anche per sapere come comportarsi. Ora, la crescente necessità di chiamare in causa lo sciamano accresce il prestigio di questa figura, la quale, generalmente, si trova a dover scegliere una delle seguenti opzioni: 1) restare sul posto e continuare a morire, in attesa di sicuri tempi migliori; 2) spingere alcune famiglie in cerca di nuove terre, in modo da ridurre il numero delle bocche da sfamare; 3) chiedere aiuto alle popolazioni confinanti; 4) tentare l’azione di forza a collettiva finalizzata al genocidio di una tribù nemica. Nessuna di queste opzioni offre solo vantaggi, ciascuna portando a ben determinate conseguenze: l’opzione 1 si affida alla speranza di un miglioramento spontaneo delle cose, ma intanto non modifica lo status quo; la 2, se da un lato alleggerisce il carico demografico e incrementa la disponibilità delle risorse pro capite, dall’altro espone a notevoli rischi le famiglie, avviate a cercare nuovi spazi; l’opzione 3 può innescare una crisi politica, che può risolversi favorevolmente in un accordo e nella creazione di un unico, grande «popolo», oppure degenerare in uno stato di guerra fra tribù; l’opzione 4 prevede, il rischio di essere sconfitti e annientati. Tuttavia, una volta che lo sciamano, coadiuvato o meno dal consiglio degli anziani, abbia preso una decisione, di norma, essa viene annunciata all’intera tribù dallo stesso sciamano come «volontà divina» e, in quanto tale, come se fosse la soluzione migliore possibile.
La scoperta dell’agricoltura
Finché un territorio riesce a fornire risorse sufficienti, una popolazione di cacciatori-raccoglitori può non essere interessata a cercare altri mezzi di produzione alimentare: è il caso degli indiani della California, che, vivendo in una delle aree più fertili del mondo e disponendo in abbondanza di pesce, selvaggina e prodotti vegetali selvatici, non praticavano l’agricoltura. L’agricoltura è una precisa risposta ad un preciso bisogno. La sua scoperta è favorita dalla permanenza prolungata nello stesso territorio, perché richiede che venga colto il non facile nesso tra seme e pianta. La sua pratica dipende da due principali fattori: la scarsità di territori liberi e l’incremento demografico. Quando le risorse ambientali subiscono una brusca riduzione o risultano inadeguate per il fabbisogno di una popolazione che è cresciuta, la prima cosa che viene in mente agli anziani è quella di muoversi alla ricerca di un altro territorio, ma, se la tribù è completamente circondata da altre popolazioni, e non vuole ingaggiare azioni di forza, il ricorso all’agricoltura può costituire la migliore risposta al problema. Un terreno coltivato, infatti, è in grado di aumentare, da dieci a cento volte, la sua produzione di cibo.
Sappiamo con certezza che la scoperta dell’agricoltura rappresenta uno degli eventi chiave nella preistoria del Mesolitico, ma ignoriamo quando, come e per merito di chi essa sia avvenuta, né come mai essa si sia affermata in diverse aree del pianeta fra loro lontane e prive di rapporti. “Non è mai stato spiegato in modo del tutto soddisfacente perché ebbe inizio l’agricoltura, né quando ciò accadde e come questa pratica si sviluppò in diverse parti del mondo, in un’epoca nella quale non c’erano realistiche possibilità di contatto fra un gruppo e l’altro” (SYKES 2003: 145). In effetti, bisogna riconoscere che non è per nulla semplice distinguere e seguire nella loro corretta sequenza le diverse fasi della coltivazione dell’orzo, stabilire il nesso causale tra seme e pianta, tempi e modi della preparazione del terreno, e mettere a punto le tecniche della semina, del raccolto e della lavorazione del chicco (macinatura, impasto, cotture), sì da renderlo commestibile. Tutto ciò non è affatto semplice, in un periodo in cui nessuno ha ancora la più pallida idea di che cosa sia l’agricoltura. E, se proprio, vogliamo sapere in che modo l’uomo abbia potuto scoprire i segreti della riproduzione vegetale, dobbiamo lasciare spazio all’immaginazione. Proviamo, dunque, ad immaginare le vicende di un ipotetico clan, che chiameremo Alfa, che potrebbe essere vissuto nella regione del delta del Nilo circa 10 Kyr fa.
Libera ricostruzione di una storia
Da un po’ di anni il territorio offre risorse in abbondanza e le nascite sono superiori alle morti, così che il clan Alfa può già contare cinquecento membri (un numero notevole per un clan), suddivisi in una trentina di bande disseminate in un territorio di 40 kmq. La banda più numerosa, che chiameremo anch’essa Alfa, comprende una cinquantina di membri e controlla una lussureggiante area di circa 4 kmq sulla riva destra del Nilo. Nel campo base dimorano una mezza dozzina di donne, ciascuna con un piccolo da allattare, insieme ad uno stuolo di bambini svezzati e di ragazzi più grandicelli: in tutto una trentina di individui. Approfittando del periodo eccezionalmente favorevole, la comunità può trascorrere buona parte del proprio tempo nell’ozio e nei giochi, uno dei quali, il gioco dell’orzo, è ancora molto praticato, anche se, col tempo, ha subito dei cambiamenti, che finiranno per avere delle conseguenze di inestimabile importanza.
Le regole del gioco sono semplici. Ciascun partecipante deve preliminarmente procurarsi un bastone robusto e appuntito e qualche manciata di chicchi d’orzo. Quindi si procede a delimitare un’area pianeggiante di un centinaio di mq, che viene accuratamente liberata da ogni forma di vegetazione e, in essa, servendosi del proprio bastone, ciascuno scava un lungo solco, dove depone, ricoprendoli, i chicchi d’orzo, e all’estremità del quale pianta il proprio bastone come contrassegno. Inizia a questo punto una fase di attesa, che finisce quando le piantine sono cresciute e maturate. Ciascuno allora raccoglie le spighe del proprio solco e, dopo averle sgranate, si procede a confrontare la quantità dei chicchi raccolti: chi ne ha di più è il vincitore.
Col passare del tempo qualcuno intuisce i vantaggi di quel gioco e quello che prima era un semplice svago diventa una vera e propria attività lavorativa, che riscuote successo e, ben presto, viene imitata non solo dagli altri gruppi del clan Alfa, ma da tutte le popolazioni della regione e, a seguire, dalle tribù che vivono lungo la riva sinistra del Nilo. Così avviene che, intorno a 11 Kyr fa, pressoché tutti i clan della valle del Nilo praticano la coltivazione dell’orzo, sia pur limitatamente all’area circostante il campo base, che è quella più frequentata e presidiata. La quantità di orzo raccolto non è ancora tale da coprire il fabbisogno alimentare della comunità e non è in grado di consentire un salto di qualità del tenore di vita, ma, tuttavia, la capacità di produrre cibo rappresenta una straordinaria acquisizione dell’uomo, i cui frutti saranno adeguatamente apprezzati nei millenni seguenti. Sarà solo agli inizi del neolitico che l’uomo imparerà a selezionare il terreno e le sementi più adatte e coltiverà aree sempre più estese e in modo sempre più regolare.
Vantaggi e limiti dell’agricoltura
Il sia pur modesto plus alimentare costituito dall’orzo coltivato si rivela sufficiente ad aprire un lungo periodo di prosperità nella regione del Nilo, che favorisce rapporti distesi e scambi di cultura, di merci e di donne fra clan confinanti, che, per la prima volta, hanno modo di frequentarsi assiduamente e per ragioni non strettamente inerenti alla sopravvivenza. La disponibilità di risorse è tale che non vi sono tentativi di approfittare del vicino e i rapporti si svolgono all’insegna del mutuo rispetto e del buon vicinato. Fra i diversi gruppi ci sono scambi di esperienze e ciascuno può apprendere qualcosa dagli altri. Così, oltre all’orzo, si impara a seminare altri cereali, con ulteriore aumento del surplus, che dà origine ad uno straordinario periodo di crescita demografica e di sviluppo tecnologico e culturale, mai visto in precedenza. Tra le conseguenze della rivoluzione agricola, due meritano la nostra attenzione: il maggior attaccamento alla terra e la tendenza alla concentrazione delle popolazioni nelle aree maggiormente fertili. Nello stesso tempo, le regioni aride o montagnose tendono ad essere abbandonate, il che realizza una nuova disponibilità di terreno e una ripresa del nomadismo, che costituisce una valida risposta ai capricci della terra.
Purtroppo le colture assorbono le sostanze nutritive e impoveriscono il terreno fino a renderlo sterile, a meno che non lo si arricchisca in qualche modo, ma questo ancora l’uomo non lo sa. Egli però nota che la produzione agricola dipende dalle condizioni atmosferiche, dalla pioggia, dal sole, dai venti, e non è regolare. Constata anche che l’acqua in eccesso rovina il raccolto. Insomma, la terra è capricciosa e non sempre produce con generosità. Dopo la scoperta dell’agricoltura, l’uomo si trova di fronte a queste nuove sfide ma, per fortuna, nelle pianure alluvionali che costeggiano il Nilo, avviene una naturale continua rifertilizzazione del terreno ad opera della periodica sedimentazione del limo e le inondazioni sono rare. Lo stesso non si può dire per la Mesopotamia, dove lo straripamento dei fiumi danneggia l’agricoltura. Qui gli uomini dovranno imparare a imbrigliare le acque, incanalarle, controllarle, ma ciò richiederà un’azione corale e un’organizzazione, che al momento manca, ma di cui si comincia ad avvertire l’esigenza. L’uomo mesopotamico invece riesce a trovare una soluzione al problema del fisiologico impoverimento del terreno, che consiste nel cercare nuovi terreni boschivi da coltivare. La tecnica è semplice: si bruciano gli alberi e si lascia che la cenere fertilizzi il terreno, che rimane produttivo per uno-due anni. Ci vorranno almeno dieci anni prima che gli alberi ricrescano e possano essere nuovamente bruciati per produrre altra cenere fertilizzante. Questi sono i tempi e i modi dell’agricoltura nomade. Dovrà passare ancora del tempo prima che l’uomo impari a concimare i maggesi con letame animale, dando il via all’agricoltura stanziale.
L’agricoltura non è solo surplus, ma è anche diffusione di malattie, che sono legate alla maggiore concentrazione demografica, all’aumento dei prodotti di rifiuto e, soprattutto, agli animali domesticati e ai loro parassiti, che costituiscono altrettanti veicoli di germi patogeni. Vaiolo, influenza, tubercolosi, peste, morbillo e colera sono tutte malattie di origine animale. Ancora una volta, l’uomo si troverà ad affrontare queste nuove sfide. Insomma, il progresso non ha un aspetto solo amichevole, ma presenta anche un rovescio della medaglia, col quale l’uomo dovrà fare i conti.
Solo dopo che ha acquistato dimestichezza col fuoco, l’uomo impara a cucinare certi cibi, soprattutto la carne, e anche l’orzo e il grano, da cui ricava anche la farina. Il focolare consiste di due blocchi di pietra squadrati posti a distanza di circa mezzo metro l’uno dall’altro, sui quali è adagiata una lastra, anch’essa di pietra, adeguatamente larga e resistente. Sotto la lastra si accende il fuoco e sopra si adagia il cibo da cuocere. I chicchi d’orzo o di grano abbrustoliti dal calore risultano particolarmente graditi, ma ancora di più si apprezza la focaccia fatta con la farina. Per ottenere la farina si pongono i chicchi d’orzo su una robusta pietra incavata e si battono con un chopper fino a ridurli in polvere, cioè in farina, che si impasta con acqua, la si stende fino a darle la forma di una focaccia e la si cuoce sul focolare. L’animale, invece, prima di essere messo a cuocere, deve essere fatto a pezzi, e abbiamo visto come.
I verdi campi coltivati attirano gli erbivori, in particolare cavalli, asini, pecore e capre, i quali, a loro volta, attirano i grandi predatori. Gli erbivori sono considerati dall’uomo in parte dannosi, perché mangiano il grano, e quindi trattati con ostilità, in parte come possibile fonte di cibo, e quindi ben accetti. Gli animali più giovani talvolta perdono il contatto con la madre e divengono facile preda. Meno facile è la cattura di membri adulti, per i quali si rende necessaria la cooperazione e l’uso di sassi e bastoni. Tre - quattro uomini adulti armati di pietre e bastoni possono abbattere erbivori di taglia media, anche se è più probabile ferirli e renderne possibile la cattura in un secondo tempo. I predatori invece sono malvisti, perché rappresentano un pericolo per le persone, soprattutto i bambini, e perciò si cerca in ogni modo di tenerli lontani o ucciderli. Fra essi ci sono i cani. Dare la caccia ai predatori viene considerato ancora troppo rischioso: qualcuno va alla ricerca del luogo dove la madre ha nascosto i suoi piccoli, per ucciderli, ma nemmeno questa semplice strategia risulta del tutto sicura: una madre che accorra in difesa dei suoi piccoli può essere molto pericolosa e, d’altronde, basta una ferita per mettere a repentaglio la vita di una persona. Se vuole contenere i rischi, l’uomo dovrà aguzzare l’ingegno e inventare armi e tecniche di caccia sempre più efficaci.
Il maggior problema per una tribù stanziale è l’arrivo di una carestia, che generalmente si accompagna ad un aumento dell’aggressività e della violenza. Allora la mente vola a quegli anni felici, a quel periodo d’oro ormai perduto, che ora viene visto come un ideale cui tendere, anche se forse irraggiungibile. Gli anziani dicono che la migliore risposta alla carestia è stringere rapporti solidali fra le tribù e non si stancano di ripetere che l’unione fa la forza. Lo vanno dicendo anche gli sciamani: è precisa volontà degli dèi che le tribù si uniscano in sol popolo. Ma non è facile. Il principale ostacolo ai rapporti distesi fra le tribù consiste nella difficoltà di comunicare. Se è facile intendersi sul nome di cane (“bau” va bene a tutti), non altrettanto facile è intendersi sul nome, poniamo, dell’acqua, che ciascun gruppo chiama con un nome diverso: il gruppo alfa «splash», il gruppo beta «scscsc», il gruppo gamma «scrrr», il gruppo delta «ach». Saranno gli uomini di confine i primi a cogliere le differenze linguistiche e culturali fra le tribù e a rendere possibili i primi fenomeni di integrazione linguistica.
La domesticazione degli animali
Adesso l’uomo può disporre di cibo in quantità maggiore che in passato, tanto da consentire qualche piccolo spreco. Almeno le ossa possono essere gettate ai cani, non certo per uno slancio di generosità, ma per attirarli e poterli catturare, ucciderli e mangiarli. Però non è facile: su dieci cani che si avvicinano, solo uno o due vengono catturati, mentre gli altri riescono ad allontanarsi, pur rimanendo nelle vicinanze, sempre pronti ad approfittare di qualche buon osso. A poco a poco i cani divengono assidui frequentatori dei villaggi finché, fra loro e gli uomini, si stabilisce un rapporto basato sulla conoscenza reciproca e sullo scambio di favori: in cambio del cibo che riceve, il cane tiene lontani altri temibili predatori. La domesticazione del cane è forse la più antica, risalendo a 12 Kyr fa. Diverso è il rapporto con altri animali che trovano cibo nei campi coltivati, come la pecora, la capra e il maiale, che, da semplici prede di caccia, vengono catturati e rinchiusi vivi in un recinto o in un profondo fossato appositamente scavato nel terreno, come riserva alimentare cui attingere nei momenti di magra. Col tempo si imparano le pratiche di allevamento di queste specie animali che consentono di utilizzare appieno i loro prodotti, come il latte, la lana, le setole e le pelli. Con la domesticazione di questi animali (10 Kyr fa) si afferma la figura del pastore, che si servirà del servizio dei cani a protezione del gregge.
La nascita del villaggio
Dopo la scoperta dell’agricoltura, dunque, vuoi per conseguenza della vita stanziale, vuoi per l’attrattiva esercitata dal surplus, i rapporti fra le tribù diventano sempre più frequenti, potendo sfociare in accordi amichevoli, scambi commerciali e alleanze, oppure in razzie e saccheggi. In ogni caso, aumentano la conoscenza reciproca e lo scambio culturale, che, unitamente al perfezionamento delle tecniche agricole e per la realizzazione di utensili e armi sempre più efficienti, determinano una maggiore disponibilità di risorse, un miglioramento delle condizioni di vita, un incremento demografico e un consolidamento dei rapporti, generalmente pacifici, tra clan diversi. Sono queste le premesse per la costruzione dei primi villaggi, che cominciano a sorgere proprio là dove un tempo c’erano dei semplici campi base. In prossimità del villaggio, si possono scorgere sempre più estesi campi coltivati ad orzo o a grano, il cui prodotto rende possibile, per la prima volta, la costituzione di significative riserve alimentari. Coi villaggi inizia la vita sedentaria e compaiono le prime abitazioni permanenti, che hanno forma semplice, di solito quadrangolare, e sono costruite con materiale deperibile, come legno, pelli animali e fibre vegetali. A partire dalla società di villaggio, l’equilibrio natura/cultura comincia a pendere dalla parte di quest’ultima.
La novità più importante della società di villaggio è che, per la prima volta, in uno spazio di poche migliaia di metri quadri, possono convivere più di cento persone accomunate non soltanto da legami parentali, ma anche e soprattutto da affinità culturali. Fra le principali conseguenze della nuova società vi è una più netta e codificata divisione dei compiti, pur sempre nel rispetto dell’ordine naturale. Le donne con prole da allattare sono i soggetti maggiormente limitati nelle loro possibilità di movimento e pertanto rimangono legate al cuore del villaggio, insieme ai bambini più piccoli, ai membri più attempati del gruppo e, in generale, a tutti coloro che, per una qualsiasi ragione, non sono pienamente autonomi. A costoro vengono affidati quei lavori, che non richiedono un allontanamento dal villaggio, come la costruzione di utensili. Coloro, invece, che sono liberi di muoversi (in maggioranza maschi adulti), si occupano specificamente di quelle attività, che si possono svolgere solo lontano dal villaggio, come la caccia, la sorveglianza dei confini del territorio e il lavoro agricolo nei campi più periferici.
Per tutti il villaggio è il punto di riferimento e tutti, quando cala la sera, vi fanno ritorno, a meno che ne siano impediti per una qualche valida ragione, come una battuta di caccia particolarmente impegnativa o conflitti di confine. Se i cacciatori fanno ritorno al villaggio con un ricco bottino, sufficiente ad assicurare per diversi giorni cibo abbondante per tutti, essi possono decidere di trattenersi nel villaggio, dando vita ad una fase di ozio e a scambi interpersonali così intensi e vari da non avere riscontro in nessun’altra epoca del passato. È in simili condizioni che l’uomo impara ad accendere il fuoco artificialmente, e dà un forte impulso alla propria vita sociale. Nello stesso tempo, acquista una maggiore fiducia in se stesso e matura la speranza che la vita non può finire con la morte. Il culto dei crani, che si va diffondendo proprio in questo periodo, attesta la nascita di un nuovo sentimento religioso.
Lo sviluppo della religione
Nel capitolo precedente abbiamo osservato come le prime tribù fossero società instabili. Sotto questo aspetto, la società di villaggio fa importanti progressi, grazie proprio al fattore religioso. In teoria, ogni famiglia può avere la propria divinità tutelare, ma di solito si tratta di divinità «private», prive di rilevanza generale. All’interno di ogni clan, tuttavia, c’è quasi sempre una divinità che è considetata superiore alle altre, alla quale si attribuisce la sovranità sul clan e la responsabilità sugli eventi che lo riguardano. Ora, mentre nel clan c’è un’unica divinità importante, nella tribù le divinità importanti sono tante quanti i clan, e ciascuna di esse può avere un proprio sciamano. Quando le cose vanno male, la gente si chiede: «Quale dio è stato offeso, e da chi?» «A quale dio dobbiamo rivolgerci?», «Di quale dio è bene conoscere la volontà e seguire i comandi?». A questo punto è inevitabile la formazione di una certa gerarchia fra le diverse divinità, gerarchia che i rispettivi sciamani contribuiscono ad alimentare. Ogni sciamano, infatti, dà una versione personale degli eventi e propone soluzioni diverse, mentre la popolazione si trova semplicemente a dover scegliere fra l’una o l’altra.
Alla fine, lo sciamano che prevale, quello che riceve maggior credito, che non necessariamente appartiene al clan più potente, viene ad acquistare un potere straordinario e pressoché illimitato, ma si assume anche una bella responsabilità e corre dei rischi non da poco. Infatti, se sotto la sua guida le cose dovessero andare bene, egli consoliderebbe il suo prestigio e le sua gesta potrebbero essere ricordate e tramandate alle generazioni future, fino a farlo entrare nella leggenda, insieme al suo dio, ma, se le cose dovessero andare male, egli potrebbe pagare, anche con la vita, e il suo dio verrebbe declassato a figura di secondo piano e dimenticato. I due destini, quello del dio e quello del suo sciamano, sono dunque interdipendenti. Benché il suo compito sia ad alto rischio, lo sciamano difficilmente può sottrarsi al ruolo cui viene chiamato. Il suo gesto, infatti, potrebbe essere interpretato come un rifiuto di aiutare la tribù e, per tale atteggiamento, egli rischierebbe la vita. A conti fatti, per lui è molto meglio stare al gioco, comunque vada a finire.
Col passare del tempo e nei diversi luoghi, lo sciamano mette a punto e perfeziona le sue tecniche, i sui gesti, le sue parole e i suoi riti, scegliendoli fra quelli che hanno dimostrato di essere più efficaci e meno rischiosi. Una delle tecniche di maggior successo e di grande impatto emotivo è la rievocazione dei sogni e la loro interpretazione. Il linguaggio del sogno è a tutti familiare, perché tutti sognano, anche se nessuno sa che cosa sia effettivamente il sogno né come decifrarlo o applicarlo nella realtà concreta della vita. In generale, il sogno viene guardato con stupore e paura, ma anche con assoluta ignoranza. In generale, si tende a credere che esso sia una sorta di messaggio in codiche, ma nessuno ne conosce la provenienza e il significato. Ebbene, nelle abili mani dello sciamano, il sogno diventa uno strumento malleabile e potente, in grado di impressionare e convincere un’intera tribù e un intero villaggio.
Sociologia della religione, secondo Weber
“Le azioni che si presentano come religiose o magiche – scrive Weber – debbono venir compiute «affinché tutto ti vada bene e tu viva a lungo sulla terra»” (1999 II: 105). Religione e magia, dunque, aiutano l’uomo a soddisfare alcuni suoi bisogni, e lo fanno servendosi di appositi mediatori (sciamani, sacerdoti, maghi e stregoni), ritenuti capaci di influenzare gli dèi per mezzo della preghiera ritualizzata e di agire sui demoni attraverso riti magici, insomma, di allontanare il male e attirare il bene. Da parte loro, i fedeli modulano la propria fede sulla base della verifica dei risultati, che non sempre risultano coerenti con le aspettative. La preghiera non esaudita costituisce motivo di dubbio nei confronti della potenza del dio o della credibilità del suo intermediario. È per questo che buona parte dell’impegno delle gerarchie religiose è incentrato nel “trovare dei mezzi atti a giustificare l’atteggiamento renitente del dio, in modo tale che il suo prestigio non ne risulti sminuito” (WEBER 1999 II: 129).
Il più delle volte l’andamento negativo degli eventi viene addebitato a presunte colpe degli stessi fedeli, che non si sarebbero comportati come avrebbero dovuto. “Si fa allora strada la convinzione che non dipenda dalla debolezza del proprio dio se i nemici vincono o se altre sventure cadono sul proprio popolo, poiché l’ira del dio colpisce i suoi fedeli a causa delle loro violazioni degli ordinamenti etici che egli custodisce; che i propri peccati ne sono la causa e che il dio prende queste decisioni sfavorevoli proprio per correggere ed educare il popolo che ama” (WEBER 1999 II: 138). Se questa spiegazione trova credito presso la popolazione, può diffondersi l’idea di un’incapacità dell’uomo di comportarsi in modo tale da poter meritare la benevolenza del dio e da ciò può nascere il bisogno di essere liberati, affrancati, riscattati da questa terribile condizione, il cosiddetto bisogno di redenzione.
Prime forme di redistribuzione
Cosa vuole dunque il dio? Questo interrogativo risuona in tutte le situazioni di crisi o quando si avvicina un pericolo. La risposta compete allo sciamano e, poiché dipende da molte variabili, essa tende ad essere diversa da caso a caso. Uno sciamano prudente potrebbe dire: “il dio è offeso perché finora avete mangiato in modo ingordo e non avete diviso il cibo fra voi equamente. Egli comanda che quelli che prima hanno scialacquato dovranno mangiare di meno, e che più cibo dovrà essere dato ai bambini e alle donne che allattano”. Uno sciamano più aggressivo potrebbe esprimersi in quest’altro modo: “il dio vuole che gli vengano sacrificati tutti i bambini malati e tutti i neonati, e ordina che le loro carni siano consumate da tutti i membri della tribù, affinché la sua collera possa essere placata”. Entrambi i comandi divini potrebbero essere osservati e ciascuno potrebbe essere coronato da successo, oppure no. In ogni caso la gente si forma una propria opinione sull’andamento dei fatti e le opinioni più stabili e consolidate finiscono per essere fissate nella memoria e tramandate alle generazioni successive come princìpi di saggezza eterna, che potrebbero suonare così: “quando un dio è in collera i più forti debbono mangiare di meno a favore dei più deboli”; oppure: “per placare l’ira del dio alcuni bambini devono essere immolati”.
Uno degli indizi del buon andamento delle cose è rappresentato dalla capacità di un capovillaggio di redistribuire le risorse che le famiglie versano al tempio sotto forma di tributo: il capo ideale è ritenuto colui che può dimostrare di disporre di un’abbondanza di risorse tali da permettersi di poterle sprecare, essendo ciò prova evidente che il dio tutelare del villaggio è contento. Da ciò deriva la consuetudine di organizzare periodiche distribuzioni di beni alle famiglie, che si svolgono per lo più sotto forma di festa. In realtà, la festa redistributiva serve al capo per legittimare e stabilizzare la propria posizione dominante.
Nei rapporti fra le singole famiglie prevale, invece, lo scambio di doni. Il dono risponde alla necessità di manifestare le proprie condizioni di buona salute economica e di obbligare moralmente il ricevente a proprio favore. Dal punto di vista psicologico, il donatore si pone in condizioni favorevoli nei confronti di chi riceve, non solo perché dimostra di essere in grado di privarsi di un bene prezioso senza subirne un danno evidente, e dunque di possedere molto più di quello che gli serve, ma anche perché pone il ricevente in una posizione debitoria nei propri confronti, che, in definitiva, è una condizione di inferiorità. Un ricevente che non voglia rimanere in questa scomoda condizione deve ricambiare con un dono di pari valore. In altri termini, attraverso il dono, una persona guadagna una posizione di forza e di credito. A livello di gruppo, lo scambio di doni serve a mantenere rapporti distesi e amichevoli, che tornano estremamente utili in caso di difficoltà.
Kula e Potlatch
Nella sua celebre opera Gli Argonauti Malinowski ha descritto il costume del potlatch, che era praticato presso alcune tribù d’indiani di America e consisteva in una grande festa allestita da un gruppo apparentemente a favore di altri gruppi. Durante la festa venivano consumate enormi quantità di cibo, elargiti doni, distrutti in grande numero beni di valore. Questa elargizione di doni e ostentazione di ricchezza può sembrare antieconomica e assurda. In effetti, sotto il profilo economico, essa è incomprensibile, ma non lo è più se si considera il prestigio che essa conferiva. Il potlatch è, in definitiva, “una rivendicazione di status e il riconoscimento pubblico di questo” (BEATTIE 1978: 278). In un certo senso, il potlatch era un fattore di legittimazione del potere, che si aggiungeva agli altri due fattori più noti: la religione e la forza. Malinowski ha descritto anche la pratica dello scambio di doni, chiamata kula, che era in uso in alcune isole dell’oceano Pacifico. Usanze come le feste redistributive e gli scambi di doni stanno a dimostrare che l’uomo non tende ad accumulare solo ricchezze materiali, ma anche consenso sociale, di cui si serve per tenere alto il suo status sociale o per dare la scalata al potere politico.
Il primato della tradizione locale
La società tribale ha una mentalità globalistica, nel senso che “il magico, il religioso e il profano si mescolano e si confondono tra di loro” (ROCHER 1980: 223). “Anche se vi è una distinzione tra il potere politico e quello religioso, i due permangono sempre strettamente interdipendenti e associati” (ROCHER 1980: 223). La conoscenza è di tipo empirico e si fonda sulla paziente e attenta osservazione della realtà, ma i risultati delle osservazioni sono sempre messi a confronto con le verità che sono tramandate di generazione in generazione e danno corpo ad una tradizione, che è ritenuta lo scrigno di un sapere antico e sacro, con il quale ogni nuova conoscenza è tenuta a confrontarsi. Tutto ciò che contrasta con i contenuti della tradizione tende ad essere temuto e respinto. Anche ciò che sta «fuori» di questa tradizione, vale a dire tutte le culture «diverse», vengono viste come se fossero di grado inferiore. La società tribale è chiusa e “senza rapporti esterni se non con società vicine dello stesso tipo” (ROCHER 1980: 246). L’esaltazione della tradizione locale ha, tra l’altro, l’effetto di creare una sorta di recinto culturale impenetrabile e di collocare ogni singola tribù al centro dello cosmo.
La tradizione di una tribù è fatta di aneddoti e racconti, che sono trasmessi di generazione in generazione, subendo continui aggiustamenti involontari, a seconda della personalità e della cultura del narratore. In pratica, man mano che si allontanano dall’evento, o dagli eventi, che hanno dato loro origine, i racconti tendono a idealizzarsi e si arricchiscono di significati nuovi, sì da divenire comprensibili e funzionali, anche in tempi e contesti diversi. Questi racconti sono noti col nome di miti. Essi sono strettamente correlati con la tradizione, con la quale formano un unico complesso di conoscenze e di verità.
Formazione dei miti
I miti sono racconti legati a certi eventi passati ritenuti straordinari o prodigiosi e costruiti in moda da educare la gente a certi princìpi etici e imporre certi valori religiosi in virtù della loro lunga e gloriosa tradizione. Un costume radicato in tempi lontani è come qualcosa che esiste da sempre, che esprime la saggezza dei padri e la volontà di un dio ed è perciò qualcosa di sacro, di magico, di intoccabile, che va accettato per definizione e senza discutere: opporvisi significherebbe offendere i padri e rinnegare la volontà degli dèi, con la conseguenza di attirarsi la pubblica disapprovazione e andare incontro a sicure sventure. Ogni tribù ha i suoi miti, che possono avere una valenza solo locale oppure trascendere i limiti del luogo, dove si sono formati, e acquistare una fama intertribale.
Accanto alla sua funzione pedagogica e moralizzante, il mito ha anche una funzione conoscitiva, politica e di legittimazione del potere. In quanto alla prima funzione, il mito spiega il mondo e tiene il posto della scienza. Relativamente alla sua funzione politica, il mito “serve a stabilire, e al tempo stesso a giustificare, istituzioni, costumi, valori che hanno un forte peso nella storia dei popoli, o nella storia di un gruppo all’interno di un popolo” (MAGLI I., 1984: 145). Per quanto attiene la funzione legittimante, va ricordato che “La maggioranza dei sistemi di autorità politica, soprattutto quelli semplici e di piccole dimensioni, trae almeno in parte la sua legittimità da miti; vale a dire, da racconti generalmente accettati riguardo al modo in cui nacque il sistema” (BEATTIE 1978: 227). “Il loro risultato è sempre quello di legittimare l’ordine attuale, di mostrare che è giusto per coloro che governano governare e per coloro che sono governati essere governati” (BEATTIE 1978: 227). La funzione legittimante del mito si rivela particolarmente utile nel momento in cui si prenda atto che è nata una nuova potenza o è stata fondata una nuova dinastia e non è un caso che simili eventi sono generalmente accompagnati da racconti mitici di legittimazione costruiti ad arte a tempo debito, quando il potere è già operante e ha bisogno solo di essere giustificato e accettato da tutti.
Tipicamente, i miti si abbozzano nei periodi di massimo benessere e, oppure in seguito a periodi drammatici con lieto fine. Il mito è un racconto poetico (cioè a libera interpretazione) di eventi realmente accaduti e memorabili, di un passato anche lontano, da cui emergono figure di personaggi eccezionali, che svolgono il ruolo di eroi e di modelli. Ancorati ad una lunga tradizione locale, questi racconti non sono più ritenuti oggetto di discussione, ma considerati eterni e inviolabili e, come tali, condivisi per fede. Gli anziani amano raccontare i miti ai più giovani, soprattutto nei periodi di crisi, quando le tensioni turbano la quiete fra clan o tribù, oppure terremoti, epidemie, alluvioni o inondazioni seminano panico e scompiglio fra le genti. Ciascun evento negativo dev’essere affrontato ma, prima ancora, va spiegato, ed è qui che il ricordo del passato, che rivive attraverso il mito, ritorna sommamente utile. Il mito è verità garantita da una lunga tradizione, è dogma, punto di riferimento, memoria storica, valore sacro, insegnamento morale, senso comune, identità culturale di una popolazione, ed è da qui che uno sciamano deve partire quando si accinge ad affrontare una crisi e a prendere decisioni importanti, se vuole avere un minimo di credibilità. È da qui che si formano le regole e i costumi sociali.
In un’epoca in cui non ci sono né scuole, né maestri, né testi scritti, né organi di divulgazione delle conoscenze, la trasmissione di ogni notizia e informazione può avvenire solo per via orale, da padre in figlio o dal più anziano al più giovane. Questo sapere così trasmesso svolge un ruolo primario e fondamentale ai fini dell’organizzazione e della coesione sociale, costituendo, al tempo stesso, un codice di norme etiche e comportamentali, che si ricollegano alla divinità e che a nessuno è dato di violare. Chiunque osi mancare di rispetto al modo comune di sentire o tenti di imporre il proprio punto di vista con la forza sa che perderebbe la stima del gruppo e, alla fine, ne risulterebbe indebolito a tal punto da compromettere la propria stessa vita. L’unica possibilità di farsi accettare è quella di mostrarsi fedeli e in sintonia con la tradizione dei padri: le spinte al conformismo sono così forti che non si avverte la necessità né di giudici, né di tribunali, né di sanzioni prestabilite, né di carceri. C’è solo un modo per modificare l’ordine vigente: fare appello a un dio e sperare nella sua accondiscendenza. A nessun uomo, infatti, è riconosciuto il potere di cambiare l’ordine sacro tramandato dai padri. Da qui l’importanza crescente dello sciamano.
Le conseguenze politiche dell’economia agricola
Il principale elemento di novità dell’agricoltura è la costituzione di un surplus, con tutte le conseguenze ad esso connesse, come le questioni inerenti le tecniche di produzione e di conservazione, o quelle relative a chi e a come amministrarlo, ma soprattutto le questioni che riguardano la possibilità di depredarlo e la necessità di difenderlo. Differenze fra le tribù possono essere notate sotto ognuno di questi aspetti, dando luogo a politiche e storie molto diverse. Alcune tribù sviluppano una politica di tipo egalitario, distributiva e difensiva, accontentandosi di quello che riescono a produrre e sviluppando un’economia minimalista, che consente loro di vivere in modo semplice e autarchico. Altre, invece, si organizzano in modo verticistico e sviluppano politiche predatorie, ritenendo più semplice e remunerativo vivere delle risorse altrui piuttosto che produrle da sé. Come vedremo, i fatti daranno ragione a questi ultimi, ma sorgerà un nuovo problema: anche i predatori possono essere predati. Da qui la spinta ad organizzarsi sempre meglio e a sviluppare tecnologie militari sempre più efficienti, al fine di prevalere in forza rispetto a tutti gli altri, in modo da non potere essere predato. “La tecnologia, in forma di armi e mezzi di trasporto, è il mezzo più immediato grazie al quale alcuni popoli hanno soggiogato altri e allargato i loro domini; è il fattore più importante nelle grandi dinamiche storiche” (DIAMOND 1998: 189). È su queste basi che si svilupperà la storia delle città e delle civiltà, la quale, però, insegnerà che nessuno potrà mantenere indefinitamente il ruolo di superpredatore.
La società tribale nel Mesolitico
Nel Mesolitico esistono due modelli vita prevalenti: quello del nomade e quello del contadino. Il nomade vive in piccoli gruppi familiari, pratica la caccia e la raccolta e non si preoccupa alcuna di costituire riserve alimentari. Il contadino vive invece nella campagna che ha coltivato, avendo come punto di riferimento il vicino villaggio e lo sciamano che vi risiede. La vita di entrambi continua ad essere rigorosamente regolata dagli eventi naturali, dalla pioggia, dalla fertilità del suolo, dalla disponibilità di sorgenti o di corsi d’acqua. Basta un calo di produttività della terra, comunque causato (un incendio, un’alluvione, un periodo di siccità, un’invasione di insetti) o un’epidemia per mettere in crisi l’intera collettività e quando lo stato di crisi perdura, non tarda a riemergere il principio di forza, che è sempre in agguato. Così può avvenire che, in occasione della spartizione del cibo, i più forti mangino a sazietà, mentre i più deboli muoiano per denutrizione o malattie; i primi impongono i propri interessi, i secondi si sentono ingiustamente penalizzati. In simili casi, ben presto il malcontento si diffonde nella popolazione e, come al solito, la mente va al «nemico invisibile» e alle divinità tutelari e, immancabilmente, si comincia ad invocare l’intervento dello sciamano. Ogni periodo di crisi costituisce, per il gruppo, una minaccia alle proprie consolidate tradizioni e, per lo sciamano, un’occasione per tentare di consolidare o cambiare l’ordine sociale vigente.
Libera ricostruzione di un evento del Mesolitico
Per comprendere come possono essersi svolti gli eventi, raccontiamo la preistoria (immaginaria) di Lupo Grigio, uno sciamano del clan dell’aquila, il quale, dovendo fronteggiare un’epidemia, che da tempo affligge e decima la popolazione, decide di ritirarsi in solitudine su una montagna, dove si trattiene per settimane. Quando ritorna fra la sua gente, appare raggiante, perché ritiene di essere in grado di spiegare il fenomeno. Riferisce, dunque, che il dio è adirato perché, mentre tutti i membri della tribù hanno un riparo e di che nutrirsi, lui non ha nulla di ciò. Per questo ha mandato l’epidemia, e altre sventure minaccia di infliggere ai suoi figli a causa del loro smodato egoismo. Se però – aggiunge lo sciamano – ciascuno si dimostrasse disponibile a riparare il torto, fornendo al proprio dio una dimora e del cibo come si conviene al suo rango, il dio dimenticherebbe l’offesa subita e allontanerebbe il male dalla sua gente. La paura della crisi presente e dei possibili castighi futuri induce la tribù a prestare fede alle parole dello sciamano e tutti si dicono pronti a mettere in pratica i suoi suggerimenti.
L’incarico dei lavori viene affidato agli uomini del confine, i quali chiamano tutti alla collaborazione. C’è entusiasmo nei clan e tutti fanno a gara allo scopo di portare a termine nel miglior modo possibile l’impresa. Si scelgono le pelli più belle e i legni migliori e, in tempo record, viene eretta la tenda più imponente e singolare del villaggio, che è resa ancora più appariscente ed esclusiva da un elegante e robusto recinto che la circonda. È la Casa del dio, la prima nella preistoria dell’uomo. Al suo interno, nel punto centrale, viene collocato il simulacro della divinità e tutt’intorno viene ordinatamente disposto il cibo che la gente va portando in offerta. A lavori ultimati, lo sciamano dice che il dio è finalmente soddisfatto e annuncia che presto la gioia ritornerà nel clan. Il caso vuole che le cose vanno proprio nel modo predetto e al periodo di crisi subentra gradualmente un periodo positivo. La gente allora viene pervasa da un sentimento di meraviglia e gratitudine e, sentendosi debitrice nei confronti dello sciamano, gli affida il prestigioso compito di prendersi cura della Casa del dio e provvedere alla raccolta delle offerte necessarie perché il dio non abbia di che lagnarsi. Lo sciamano accetta di buon grado il ruolo al quale viene chiamato e promette che si impegnerà affinché il dio guardi con occhi benevoli alla sua gente e la protegga da ogni male. Poi soggiunge: “il dio vuole che tutti gli animali di piccola e media taglia catturati vivi e in buona salute debbono essere portati nella sua casa e collocati all’interno del recinto. Essi costituiranno il prezzo che la comunità dovrà pagare per evitare di risvegliare la sua collera e di essi io mi servirò per far sì che la Casa del dio non abbia a mancare di nulla. Chi non avesse animali dovrà consegnare la decima parte di ciò ha raccolto”. La comunità plaude a quelle parole e, agitando gioiosamente le braccia, acclama lo sciamano e il suo dio salvatori del clan. È uno straordinario giorno di festa, che verrà ricordato a lungo come un momento di rara felicità, segnato dal perfetto accordo tra la comunità e il suo dio.
Nonostante la sua nuova posizione sociale di grande prestigio, Lupo Grigio decide di vivere con ostentata moderazione e sceglie come sua dimora un’umile tenda, collocata in prossimità della Casa del dio, affinché sia chiaro a tutti che in nessun modo egli vuole per sé gloria o privilegi. Il messaggio che intende lanciare alla sua gente è chiaro: lo sciamano deve essere il servo di tutti, tanto del dio quanto del popolo, e deve limitarsi a custodire e amministrare la Casa del dio in umiltà e senza secondi fini. Ma, attenzione, avverte Lupo Grigio, c’è una cosa che deve essere chiara a tutti: tenda e recinto sono luoghi consacrati al dio e a nessuno, fatta eccezione dello sciamano, è lecito accostarvisi per non esporre a sicuri castighi la propria persona e l’intera comunità. Con coerenza, lo sciamano sistema opportunamente dentro il recinto gli animali che vengono portati in offerta, li divide per specie e li accudisce. Comportandosi da vero uomo saggio, Lupo Grigio impiega i beni della Casa del dio per aiutare le famiglie nei momenti di difficoltà e, quando muore, lascia di sé un ricordo indelebile, che oltrepassa i limiti del proprio clan. Dappertutto si parla di lui, delle sue virtù, della sua intelligenza e del suo rapporto privilegiato col dio, e altri sciamani cercano di imitarlo. Intorno a 10 kyr fa, l’intera regione del Nilo risulta disseminata di piccoli villaggi, all’interno di ciascuno dei quali spicca una tenda diversa da tutte le altre, la Casa del dio, e un uomo diverso da tutti gli altri, lo sciamano, l’umile servitore del dio e della comunità.
Rispetto al passato, la principale novità è costituita proprio dalla figura, per così dire, istituzionalizzata dello sciamano, ed è a lui che adesso ci si rivolge, regolarmente e con fiducia, nei momenti di difficoltà. Se la terra non produce più come prima, se una strana malattia fa morire uomini e animali, se un fulmine scatena un incendio, se un qualsiasi pericolo minaccia la comunità, in questi casi la gente si rivolge allo sciamano e gli chiede: “Perché il dio è in collera? Cosa occorre fare per rabbonirlo?”. Non sempre è facile trovare una risposta convincente e ogni sciamano deve arrabattarsi come meglio può nel tentativo di risolvere lo stato di crisi. Nel tempo, un tipo di risposta comincia a dimostrare una maggiore efficacia su tutte le altre, così che gli sciamani vi ricorrono più frequentemente. Il pretesto è fornito dal fatto che quasi sempre c’è qualcuno nella tribù che fa il furbo e, anziché portare in offerta al dio un animale che ha catturato vivo, finge che ha dovuto ucciderlo e lo tiene per sé, oppure consegna meno della decima parte di ciò che ha raccolto. È in ciò lo sciamano indica la causa principale delle sciagure che si abbattono sul clan, nel fatto che non tutti portano al dio quanto è stato stabilito. Se le cose – dice – vanno male è perché molti non amano a sufficienza il proprio dio, non rispettano i patti e non gli riservano la parte dovuta dei loro beni. Per questo il dio li punisce, affinché si ricordino di assolvere con onestà e purezza di cuore ai propri impegni nei suoi confronti.
Approfittando di un momento di crisi particolarmente grave, uno sciamano, che chiamiamo Fiume Impetuoso, riesce ad imporre un importante cambiamento dell’ordine sociale vigente. Ecco come. In un periodo di crisi persistente, egli non si stanca di ripetere che occorre vigilare affinché tutti versino l’offerta dovuta al loro dio. Solo così, assicura, la crisi potrà essere allontanata. Ma poiché le cose continuano ad andare male, alla fine il popolo del villaggio, esasperato, decide di dare carta bianca allo sciamano e lo investe dell’autorità di risolvere l’annoso problema. È quello che Fiume Impetuoso sta appettando. Egli decide allora di nominare cinque Aiutanti, cui affida il compito di verificare che tutti adempiano il proprio dovere nei confronti del dio. Essi iniziano a percorrere in lungo e largo il territorio del clan e riferiscono allo sciamano ogni infrazione, ogni manchevolezza, ogni trasgressione, affinché egli ne possa parlare col dio e farsi suggerire le eventuali iniziative da intraprendere. Quando viene a sapere che non tutti sono in grado di versare il tributo, Fiume Impetuoso, dando prova di grande intelligenza, fa circolare la voce che il dio non solo ha deciso di esentare dall’obbligo le famiglie più disagiate, ma ha anche imposto che lo sciamano si serva dei beni del dio per soccorrere quanti ne abbiano bisogno. E così viene fatto. “Il dio è buono con te e ti offre parte dei suoi beni”, dice lo sciamano a chi si rivolge a lui con una richiesta di aiuto, e quel poveraccio se ne torna a casa contento e grato allo sciamano e al dio. Ma ben presto cominciano ad arrivare alle orecchie dello sciamano le proteste delle altre famiglie, le quali non trovano giusto che i beni di alcuni vengano donati ad altri. Ancora una volta Fiume Impetuoso sa trovare una soluzione, che pare a tutti geniale. Egli stabilisce che, se una famiglia, non disponendo abbastanza per la sussistenza, riceve parte dei beni del dio, essa dovrà impegnarsi a offrire in cambio qualcos’altro, come pelli, utensili, armi, e, se non ha nulla, almeno le proprie braccia da lavoro, oppure la semplice promessa di restituire, appena possibile, quanto ha ricevuto. Alla fine le cose sembrano funzionare, la crisi è superata e nel nostro clan ritorna il sereno.
Col passare del tempo, lo sciamano e i suoi Aiutanti imparono a organizzarsi sempre meglio e stabiliscono, con sempre maggior precisione, i ruoli e le competenze di ciascuno. Gli Aiutanti provvedono a disporre le offerte in modo sempre più ordinato all’interno e all’esterno della Casa del dio e le contrassegnano in modo che si possa facilmente risalire al donatore e verificare che tutti abbiano assolto al proprio dovere. Ma questo compito si rivela più impegnativo del previsto e molti si lamentano di ingiustizie: alcuni pagano regolarmente, altri fanno i furbi e non vengono controllati. Quando si accorge che gli Aiutanti non sono sufficienti, lo sciamano annuncia che il dio gli ha ordinato di assumerne altri cinque, e ancora una volta riceve l’approvazione dalla gente. A poco a poco, insieme ai cambiamenti organizzativi, si vanno affermando importanti cambiamenti anche nell’urbanistica del villaggio, che comincia a rispecchiare una ben precisa gerarchia sociale. Nel centro continua a troneggiare la dimora del dio, che però ora è ancora più grande e più ricca e non è più affiancata da un’umile tenda, bensì da un’altra grande dimora per lo sciamano, che ormai è chiaramente diventato il personaggio più importante del villaggio. Il suo compito, da tutti riconosciuto, è quello di servire la divinità e amministrare i suoi beni, affinché la pace e la felicità possa regnare nella tribù. Subito intorno alla Casa del dio e a quella dello sciamano, sono disposte le tende degli Aiutanti e, più in là, tutte le altre tende, che ospitano le rimanenti famiglie del villaggio, che sono quasi tutte dedite principalmente alla coltivazione dei campi. Ora, l’intera comunità del villaggio vive al servizio e in funzione della Casa del dio e, in un certo senso, appartiene e dipende da quella Casa e da quel dio.
Il nostro villaggio, che ancora una volta chiamiamo Alfa, per indicare che è il primo di tal genere, comincia a richiamare sempre più gente, anche dai clan vicini. Non solo vi si reca chi cerca cibo o aiuto, ma anche chi viene a proporre allo sciamano uno scambio: “i miei archi invece delle tue pecore; i miei punteruoli invece del tuo orzo”. Un giorno, un uomo, particolarmente abile nella costruzione di asce, viene fulminato da un’idea. “Invece di portare le mie asce nel villaggio”, pensa, “non è meglio produrle sul posto?”. Così, per evitare perdita di tempo, fatica e rischi inutili, legati al continuo via vai, si trasferisce, insieme alla sua famiglia, nella periferia del villaggio, dove pianta la sua tenda e produce le sue asce, che poi scambia con altri beni. La sua iniziativa ha un tale successo che ben presto viene imitata da molti altri, così che, in poco tempo, numerose altre tende si ergono poco distanti dalla sua: sono le tende del conciatore di pelli, del fabbricante di archi, e dei vari produttori di utensili, di armi e di altro ancora, che hanno deciso di fissare la propria residenza ai margini del villaggio. Nasce così la figura dell’artigiano-commerciante. Per i contadini e i pastori, invece, non è conveniente vivere nel villaggio: i primi preferiscono montare le proprie tende sul terreno che coltivano; i secondi, dovendo seguire il gregge, non possono avere fissa dimora. Tuttavia, anche costoro si recano periodicamente nel villaggio per barattare i loro prodotti.
Col tempo il Villaggio Alfa si impone come il polo nevralgico, il centro unificante, il simbolo dell’identità culturale, il punto di riferimento, ma anche il principale luogo di produzione e di raccolta, di immagazzinamento e distribuzione, di incontri e di scambi, di informazione e di culto dell’intera tribù. Nel villaggio si trova la Casa del dio e le dimore dello sciamano e dei suoi Aiutanti, che rappresentano il cervello dell’intera comunità, anche se non si può ancora parlare di potere politico, dal momento che non ci sono ancora cariche politiche istituzionalizzate. “Nella misura in cui esiste l’autorità politica in tutte le semplici società di banda e villaggio, essa è esercitata da individui chiamati headman, cioè da persone che non hanno il potere effettivo di costringere gli altri ad obbedire ai loro ordine” (HARRIS 2002: 258). Lo sciamano, dunque, non è abilitato a emanare leggi, né dispone della forza necessaria per farle rispettare. Egli viene di norma consultato nei casi di pericolo o di crisi e non c’è niente e nessuno che possa obbligare i singoli membri della tribù a sottometterglisi. Il suo potere è legato alla sua capacità di comunicazione e di convinzione.
Proprietà privata e diritto
Nel Mesolitico l’idea di proprietà privata non si è ancora affermata, anche se di essa si può intravedere un’anticipazione nella Casa del dio, che però è solo una proprietà simbolica, non essendo il dio una persona in carne e ossa. Il concetto di proprietà privata dunque non è innato ed ha ragione Chiarelli quando afferma che essa non ha “nessun coefficiente ereditario” (1983: 214). “L’assenza di un possesso privato della terra e delle altre risorse vitali in questo tipo di popolazioni indica probabilmente che una forma di comunismo dovette caratterizzare l’organizzazione delle bande e dei piccoli villaggi dei cacciatori-raccoglitori della preistoria” (HARRIS 2002: 261). Le uniche forme di proprietà privata sono costituite dai beni di uso personale, come la pelle che uno indossa, la tenda, gli utensili, le armi, gli animali allevati, il cibo raccolto e le prede uccise. Il principio è questo: quello che io produco con le mie mani e uso è mio. Si tratta di un fatto ovvio, non di un diritto. Nessuno oserebbe strappare dalle mani il bastone che un altro sta usando o la preda che un altro ha appena catturato, e questo non nella consapevolezza di trasgredire un diritto, ma per paura di una reazione violenta. Nemmeno la terra che si coltiva è considerata proprietà privata, se non nella misura in cui chi la coltiva è anche in grado di difenderla. Di fatto è il diritto del più forte: il diritto come principio morale e culturale non è ancora nato.
8. Città e Stati (8 - 5.5 mila anni fa)
15 anni fa
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