martedì 4 agosto 2009

8. Città e Stati (8 - 5.5 mila anni fa)

Nel dominio convivono persone, famiglie e gruppi umani non più legati da vincoli parentali, ma aventi diversa origine e diversi interessi, che ruotano intono alla figura di un capo, il quale si avvale di un adeguato apparato amministrativo per far conoscere e applicare la sua volontà.
Praticamente, l’uomo del dominio non ha più nemici naturali e, tuttavia, si trova a dover affrontare sempre nuove sfide, che impongono la ricerca di nuove soluzioni. In particolare, anche se ha soggiogato la natura, egli non ha ancora risolto il problema della limitatezza delle risorse ed è nel tentativo di assicurarsene a sufficienza (o in abbondanza) che dovrà sostenere la crescente competizione col proprio simile, il che lo indurrà ad unirsi ad altri, a formare squadre sempre più numerose e organizzarsi. In questo capitolo vedremo come questa tendenza porterà l’uomo a fondare città e a inventare la scrittura, entrando così nella storia.

La città
Un grande dominio ben organizzato e fortificato potrebbe, a prima vista, apparire indistinguibile da una città e, tuttavia, rispetto al dominio, la città si differenzia sia per aspetti quantitativi (maggiori estensione, popolazione, organizzazione, stratificazione sociale, forza militare, fortificazioni, surplus) che qualitativi (esistenza di istituzioni chiaramente codificate, anche se non in forma scritta: esercito permanente, imposizione tributaria, burocrazia, diritto, leggi). Le caratteristiche della città sono le stesse dello Stato, tant’è vero che le prime città sono in realtà Città-stato.
“L’apparizione dello Stato primitivo coincide non solo con un consistente incremento demografico [...] ma anche con una sostanziale trasformazione delle strutture economiche e politiche: si sviluppa un apparato amministrativo, il potere si dota di milizie permanenti e organizza in modo sistematico lo sfruttamento della manodopera e l’esazione dei tributi” (SCARDUELLI 1993: 733). Nella città-stato taluni aspetti già presenti nei domini (la divisione del lavoro, la stratificazione sociale) si consolidano, mentre si diffondono le attività artigianali e mercantili. Si affermano, inoltre, le funzioni giudiziarie e burocratiche tipiche dello Stato. “Con la nascita dello Stato inizia la storia delle civiltà, ossia la storia delle società autocefale e fortemente gerarchizzate, nelle quali la vita sociale è sottoposta al controllo di una minoranza organizzata che detiene il monopolio della violenza e che ha esonerato se stessa da ogni lavoro produttivo” (PELLICANI 1998: 787). È a questo punto che insorgono nelle persone bisogni prima sconosciuti, come i bisogni di grandezza e di gloria, e fanno il loro ingresso nel mondo i prodotti dell’arte e della cultura in generale.
Nella città risiede molta gente estranea, che è occupata in attività ben differenziate dal punto di vista della redditività e del prestigio sociale: ci sono schiavi, lavoratori a giornata, contadini, coloni, minatori, artigiani, mercanti, vasai, marinai, locandieri, allevatori, militari, funzionari, e via dicendo. Molti di loro sono cittadini e, in quanto tali, sono sottoposti allo stesso capo e alle stesse leggi, tutelati dalle stesse divinità, e uniti nello stesso destino, anche se ciò non vuol dire che siamo di fronte ad una collettività paritaria, come ai tempi del clan. Anzi siamo agli antipodi. La società urbana è, infatti, stratificata in classi, che hanno interessi diversi e contrapposti: al vertice c’è un sovrano, che detiene tutto il potere e si serve di funzionari e uomini armati per amministrare e difendere i beni propri e delle famiglie aristocratiche; seguono per importanza i sacerdoti, i capi militari e i ricchi proprietari; negli ultimi gradini della gerarchia troviamo i contadini, gli artigiani, i mercanti e infine gli stranieri e gli schiavi, che sono privi della cittadinanza e dei diritti ad essa correlati.
Nella città, come del resto anche nelle società pre-urbane, le qualità individuali sono subordinate all’appartenenza e pertanto ciascun gruppo sociale persegue i propri interessi in quanto gruppo piuttosto che come persona. Si creano così gruppi di interesse capaci di influenzare la condotta politica del capo. Alla fine, la legge non è uguale per tutti, e così pure i diritti. La società urbana, infatti, è tipicamente duale, nel senso che ci sono cittadini di serie A e cittadini di serie B, dominanti e dominati, privilegiati ed emarginati, ricchi e poveri, aristocratici e plebei. Spesso essa è percepita come ingiusta dagli esclusi, i quali non raramente rivendicano i loro diritti, anche ricorrendo alle armi. L’ordine sociale deve perciò essere imposto anche con l’uso della forza.
Perfino il diritto, che pure evoca l’idea di giustizia, in realtà esprime i rapporti di forza fra le classi sociali e viene comunque imposto dal più forte. Questo è il mondo che conta. I non-cittadini invece sono esclusi dalla vita politica e, in genere, non svolgono un ruolo di rilevanza storica. Alla fine il più forte detta legge, ma solo finché rimane il più forte o finché la sua autorità viene ampiamente riconosciuta. Un re legittimato può perseguire obiettivi di pace e imporre la propria volontà, anche senza ricorrere alla forza. In questo caso, il diritto corrisponde alla volontà stessa del re, ossia di colui che, dopo essersi imposto con la forza delle armi, con la stessa forza adesso può tramutare in diritto gli interessi suoi e quelli delle famiglie a lui vicine. Ma questo equilibrio e tutt’altro che stabile.

Il re
A capo della città, si nota sempre più spesso la figura di un re, in aggiunta a quella del sacerdote. A differenza del sacerdote, che abitualmente risiede nel tempio, il re ha bisogno di erigere una sua dimora specifica, dove insediare il quartier generale e organizzare il proprio lavoro. Ed ecco allora che nasce il palazzo. Così, la città riconosce due autorità massime: il re, che esercita il potere esecutivo, e il sacerdote, che esercita il potere religioso. Entrambi, re e sacerdote, esercitano tutti gli altri poteri, come quello economico e legislativo, sebbene in modo non ben definito. Quando Tempio e Palazzo si dividono tutti i poteri, il dominio è già divenuto una città-stato.

I nuovi fattori di coesione sociale
I maggiori problemi che la città si trova a dover affrontare derivano dal marcato allentamento del principale fattore di coesione sociale, il legame parentale, che è in qualche modo vicariato da altri fattori. Nella città i fattori di coesione sociale operano a diversi livelli: nel clan, nelle corporazioni, nei rapporti di dipendenza reciproca, nella religione e nella cultura. Il clan rappresenta il vecchio, il già noto, la tradizione. La corporazione invece costituisce un fattore di novità e dipende dalla divisione del lavoro. Ora, coloro che svolgono la medesima attività (soldati, artigiani, agricoltori, pastori, funzionari) hanno interessi comuni e tendono a riconoscersi come affini. Infine, e questo è sicuramente l’elemento di maggiore novità, c’è il terzo fattore di coesione sociale, il quale consiste nella perdita dell’autarchia delle famiglie e nella loro mutua dipendenza. Il quarto fattore è la religione, la fede nelle stesse divinità, riti comuni, santuari comuni, feste comuni. A ciò va aggiunto un quinto fattore, che consiste nell’ideologia di stampo nazionalista che si va diffondendo per iniziativa delle classi dominanti e, in virtù della quale, ogni città va sviluppando un sentimento di attaccamento alla propria cultura, che la fa sentire superiore, o non inferiore, o comunque positivamente diversa da tutte le altre. Alla fine, la sia pur eterogenea popolazione di una città può sviluppare un forte senso di identità culturale e una notevole coesione sociale.
C’è però un punto debole. Esso consiste nella difficoltà di conciliare i divergenti interessi dei diversi clan e delle diverse corporazioni. La mutua dipendenza si rivela insufficiente a garantire rapporti solidali fra gruppi non imparentati e va crescendo una domanda di giustizia sociale, che però è concepita in modo diverso dai diversi gruppi e, pertanto, le divergenze rimangono una costante della realtà urbana e, a volte, raggiungono il parossismo, fino a degenerare nella guerra civile. A questo problema gli uomini rispondono ripristinando il vecchio principio di forza, che sembrava sopito nei rapporti intraclanici. A queste condizioni, uno Stato può sussistere solo se dispone di un adeguato apparato di forza, che dovrà essere tanto più ragguardevole quanto meno coesi sono i gruppi sociali che lo compongono. “Il potere politico [infatti] è tale solo se chi lo esercita dispone di adeguati mezzi di coercizione” (PELLICANI 1998: 786).

Nascita dello Stato: il principio di forza
In un certo senso, lo Stato rappresenta la tappa finale di un processo che ha spinto l’uomo a creare società sempre più funzionali ai fini della sopravvivenza e della sicurezza. In teoria, uno Stato potrebbe nascere dall’accordo consensuale di diverse tribù, le cui famiglie e i cui clan stabiliscano di dividersi i compiti e vivere come un sol popolo. Ma ciò richiederebbe un codice di norme tale da poter soddisfare il senso di equità e di giustizia di ogni singola famiglia e di ogni singolo clan, il che è molto improbabile. Così, alla fine, lo Stato origina dalla capacità del clan o dei clan più potenti di imporre la propria volontà e rispecchia gli equilibri di forza in campo.
In alcuni casi lo Stato origina dalla conquista. Ora, cosa può desiderare un condottiero, che abbia sottomesso con la forza alcune tribù, se non di rendere stabili i nuovi equilibri di forza? Ebbene, per raggiungere questo scopo, la condotta più seguita si snoda attraverso i seguenti passaggi: distribuire i territori conquistati ai propri generali, asservire i vinti, imporre un tributo ai sudditi e, col ricavato, fortificare la propria residenza e istituire un corpo armato permanente e un apparato amministrativo. A questo punto, il condottiero è divenuto re.
In pratica, lo Stato è sempre il prodotto della legge del più forte. È questo che ci insegna la storia. Ciò potrebbe essere legato al fatto che i diversi gruppi umani hanno preferito anteporre i propri interessi ai principi di giustizia. È mia personale opinione che, se gli uomini decidessero di adottare principi di giustizia tali da poter essere accettati da tutti (e l’impresa non mi sembra impossibile), potrebbero realizzare uno Stato senza la necessità di dover ricorrere sistematicamente alla forza.

La proprietà privata deriva dalla forza
Ora, poiché uno dei principale interessi del re è la legittimazione del proprio potere e di quello dei propri collaboratori, l’esperienza insegna che il miglior modo di perseguire questo obiettivo è tutelare la proprietà privata, che per il momento è collettiva, la quale deriva dalla spartizione dei territori conquistati, il che vuol dire tutelare l’intero sistema di potere che si è venuto a costituire dopo l’azione di conquista. Sennonché, l’istituzione della proprietà privata, sia pure di tipo collettivo, se da un lato evita l’estenuante competizione per l’accesso alle risorse, dall’altro lato è portatrice di nuovi problemi. Infatti, più aumenta la quantità dei beni posseduti e più aumenta il rischio di furto, di rapina e di frode e, dunque, di disordine e instabilità sociale. Ciò, a sua volta, rafforza l’esigenza di un monarca particolarmente autorevole e forte, in grado di imporre la propria volontà, organizzare la vita sociale, stabilire obblighi, concedere benefici, decidere la vita e la morte, la pace e la guerra, in modo rapido e certo.
Il processo è circolare e si autoalimenta, nel senso che parte dalla forza e richiede nuova forza. Infatti, da un’azione di forza deriva la conquista, dalla conquista deriva la spartizione delle terre e quindi la proprietà privata, dalla necessità di tutelare la proprietà privata deriva la domanda di una forza coercitiva permanente, la quale, a sua volta, può essere impiegata per realizzare nuove conquiste. “Nato dalla guerra e grazie alla guerra, lo Stato [...] ha continuato a operare come una macchina da guerra, votata alla conquista di altri territori e all’assoggettamento di altri popoli” (PELLICANI 1998: 788). Lo Stato dunque nasce dalla violenza e sopravvive grazie alla forza delle armi. “Nessun ordinamento sociale esteso – afferma H. Popitz – riposa sulla premessa della non-violenza. Il potere di uccidere e l’impotenza della vittima sono fondamenti latenti o manifesti di determinazione della struttura della convivenza sociale” (1990: 76). Ma perché la forza è così importante per lo Stato? A che serve tanta forza? Serve a tutelare l’ineguale distribuzione dei beni e soprattutto della proprietà privata introdotta dalla guerra.
In realtà una sorta di proprietà privata era già nota ai primi villaggi di agricoltori in ottemperanza al principio che la terra (quantomeno il suo frutto) è di chi la lavora. Ebbene, questo principio nello Stato non più così tassativo: nello Stato la terra appartiene al condottiero che l’ha conquistata e ai suoi generali, che però abitualmente la fanno lavorare ad altri (affittuari, servi). In pratica, adesso la terra non è più necessariamente di chi la lavora. Nello Stato il proprietario della terra non solo non è tenuto a lavorarla, ma può anche trasmetterla in eredità ai figli, anche se questi continueranno a non lavorarla. La proprietà non più sinonimo di lavoro, ma diventa patrimonio di famiglia. Del resto, grazie alla divisione del lavoro, ora esiste un crescente numero di persone che ricava il proprio sostentamento da attività di tipo dipendente o servile (soldati, coloni) oppure un lavoro manuale (artigiani), lavori che prescindono dalla necessità di essere proprietari di un immobile. La novità, dunque, è questa: nello Stato ci sono famiglie proprietarie e famiglie nullatenenti, famiglie che possiedono grandi estensioni di terreni che fanno lavorare a personale servile e famiglie che possono contare solo sulle proprie braccia, famiglie ricche e famiglie povere.

Natura e funzioni dello Stato
Secondo P. Clastres, violenza e guerra sono connaturate all’uomo e lo accompagnano fin dalle epoche più remote. Le società tribali avrebbero avuto bisogno della guerra sia per preservare la propria identità di gruppo sia per rinforzare i vincoli di solidarietà fra i membri dei gruppi dominanti e mantenerne la coesione sociale. “Insomma, la guerra è lo strumento che permette di avere la pace interna, e ciò significa che l’uomo non può sfuggire alla violenza: è condannato a scegliere fra la guerra intratribale e la guerra intertribale” (Pellicani 1998b: 786). Abbiamo visto che così non è, che le guerre fra tribù erano estremamente rare, mentre sono divenute sempre più frequenti a partire dai domìni, per raggiungono la massima espressività con gli Stati.Con la guerra si entra nello Stato e con lo Stato si entra nella storia. Ebbene, “La storia [...] incomincia nel momento in cui il capo cacciatore paleolitico da primus inter pares si trasforma nel sovrano che, grazie al controllo della forza armata, accentra nella propria persona tutti i poteri. È la forza armata che permette al sovrano di riorganizzare la totalità dell’esistenza dei sudditi, costringendoli a produrre quelle eccedenze di beni indispensabili per mantenere una casta sacerdotale e una burocrazia e per costruire le città, i palazzi e le grandi opere pubbliche” (PELLICANI 1998b: 787).
La guerra non è un attributo della natura umana, ma è una conseguenza della volontà di pochi di appropriarsi con la forza dei beni altrui. La guerra, ovvero il costume di appropriarsi delle risorse altrui mediante l’uso della forza, nasce quando, a seguito della pratica dell’agricoltura e della disponibilità di surplus, alcune tribù decidono di specializzarsi nell’arte predatoria e, ricorrendo alle armi, si appropriano delle terre dei contadini e poi costringono questi ultimi a lavorare per il padrone. E poiché il contadino mostra di non gradire la situazione, i conquistatori rispondono creando lo Stato e sostenendolo con la forza come se fosse un bene comune. Insomma, lo Stato nasce con la precipua funzione di legittimare la spartizione delle terre fra i capiclan conquistatori. Ha ragione, dunque, Engels quando afferma che lo Stato non ha alcun carattere sacro, come vorrebbe far crederci un certo pensiero politico favorevole a giustificare e legittimare la proprietà privata, ma “è, piuttosto, un prodotto della società giunta a un determinato stadio di sviluppo” (1976: 200).

Che cos’è lo Stato?
Lo Stato rappresenta l’ultimo stadio di un processo di sviluppo, “che inizia con i cacciatori-raccoglitori, passa attraverso la domesticazione di piante e animali, l’aumento della densità della popolazione e della dimensione dell’insediamento, la fase dei villaggi permanenti e quella dei chiefdom di stampo militare con opere pubbliche monumentali” (HARRIS 2002: 344). Dai reperti archeologici risulta che questo processo si ripete invariabilmente nello stesso ordine di sequenza in ogni luogo e in ogni tempo, perché, come ci spiega lo stesso Harris, “le popolazioni di tutto il mondo tendono a fare scelte simili in condizioni simili” (2002: 361). Si parla di Stato quando concorrono alcuni elementi, e precisamente: la società è divisa in classi, un governo centrale detiene il monopolio della forza ed esercita il potere politico attraverso un valido apparato amministrativo, in tutti i settori lavorativi è diffusa la specializzazione, la coesione sociale non dipende da legami parentali, ma dal luogo di residenza (FRANGIPANE 1996: 9). “Gli effetti di questo sviluppo, riconoscibili archeologicamente nella maggioranza dei siti, sono: grande espansione della produzione; uso dei sigilli e degli strumenti di controllo amministrativo; esplosione della produzione di massa di scodelle per la distribuzione del cibo; considerevole sviluppo dell’artigianato e della produzione dei beni «di prestigio», tra cui i metalli e infine, nell’ultima fase del periodo, la nascita della scrittura” (FRANGIPANE 1996: 177).
Sotto altri aspetti, possiamo definiamo Stato una popolazione che, oltre ad essere gerarchicamente ordinata, è sovrana e indipendente, ossia non deve dar conto ad altri poteri e non riconosce alcun’altra autorità al di sopra di sé. Parliamo invece di città-Stato quando è la città a presentare i caratteri dello Stato, ossia è indipendente e sovrana. Sotto questo aspetto, lo Stato si definisce in rapporto a forze esterne.

La società dello Stato è sempre duale
Proprio in virtù della sua stessa natura e delle sue stesse funzioni, lo Stato è tipicamente composto da due principali gruppi sociali: il gruppo dei vincitori, che è una minoranza, e il gruppo dei sottomessi, che è la maggioranza. È dunque una tipica società duale, dove è possibile distinguere una minoranza di famiglie proprietarie e potenti, che diventano classe aristocratica, e una massa di famiglie di rango inferiore, che sono ridotte ad una condizione servile. Da questa differenza di status prendono origine alcuni fenomeni sociali in precedenza sconosciuti, come le ostentazioni di potere e di sfarzo, la miseria e le disuguaglianze. Così originato, lo Stato può essere concepito come una “macchina di dominio controllata da una minoranza organizzata, pronta a usare la violenza per piegare alla sua volontà la massa non organizzata” (PELLICANI 1998: 786).

La questione del potere
Se lo Stato fosse stato edificato sul principio di giustizia, le pagine di libri di storia sarebbero piene di domande del tipo: «Qual è il modo più equo per ripartire le risorse collettive fra le singole persone?», oppure «Quali sono i principi di giustizia che tutti sarebbero disposti a condividere?». Ma poiché, come abbiamo visto, lo Stato si è affermato sul principio di forza, le domande che gli uomini hanno dovuto porsi, sin dai tempi del Neolitico, sono del tipo: «Chi deve comandare? A chi spetta il potere?». Ebbene, pur nella loro varietà, le risposte a queste domande sono accomunate dall’esito che è lo stesso: una minoranza governa e comanda e una maggioranza è governata ed è indotta all’ubbidienza. L’esito è la società duale.

La cleptocrazia
Gli uomini armati non devono produrre il cibo di cui hanno bisogno (se lo fanno consegnare con la forza dagli agricoltori) e possono farsi riconoscere una serie di privilegi dalla popolazione sottomessa. Nasce così quella che qualcuno chiamerà “cleptocrazia” (DIAMOND 1998: 220), per indicare l’indebita appropriazione di beni e privilegi da parte di questa classe armata. Si creano così due classi sociali ben distinte: quella dei dominati, ai quali non viene riconosciuto il diritto di disporre di proprietà, né di partecipare alle decisioni di pubblico interesse, e nemmeno di decidere della propria vita, e ai quali vengono affidati i lavori più umili e servili, e quella dei dominanti, che possiedono le terre, controllano le risorse e fissano le norme del diritto.
Ora, già nel Neolitico, grazie alla forza di cui dispone, la classe dominante coglie l’occasione di massimizzare la propria ricchezza, prelevando “quote elevate di surplus dalle attività agricole o commerciali” (DELLA PORTA, VANNUCCI 2001: 32). Ne consegue che i governi degli Stati sono sostanzialmente delle cleptocrazie, ovverosia dei gruppi organizzati e armati aventi “quale obiettivo prioritario il furto e la spoliazione sistematica di risorse ai danni della popolazione amministrata” (DELLA PORTA, VANNUCCI 2001: 32). In definitiva, grazie al potere di cui sono investite, le classi dominanti gestiscono la sfera pubblica e lo Stato come se fosse una proprietà privata: è la concezione patroimonialistica dello Stato.
[“Storicamente, è soltanto negli ultimi tre secoli, con l’affermarsi dei regimi liberali e liberaldemocratici, che i paesi occidentali hanno progressivamente abbandonato la loro componente cleptocratica” (DELLA PORTA, VANNUCCI 2001: 32). Tuttavia, nemmeno nei più avanzati paesi democratici il fenomeno della cleptocrazia è stato definitivamente superato. Infatti, nonostante la separazione dei poteri che dovrebbe assicurare i principî della legge uguale per tutti, dell’equità sociale e della trasparenza, non si è ancora trovato il modo di evitare che chi occupa posti elavati nella società sfrutti il proprio ruolo per fini personali. Stiamo parlando della corruzione, una piaga di cui sono affette pressoché tutte le moderne democrazia. La corruzione può essere interpretata “come un accordo tra una piccola minoranza di soggetti per appropriarsi di beni che appartengono alla maggioranza della popolazione […]. Per questa ragione, la presenza di corruzione è un indicatore di un’inclinazione cleptocratica all’interno dell’élite di governo” (DELLA PORTA, VANNUCCI 2001: 34).]

La piramide sociale
Sia che operi la volontà del capo, sia che esista un codice di leggi, in ogni caso i ruoli sociali sono concepiti in modo sempre più differenziato e secondo un ordinamento gerarchico. Il ruolo del sacerdote viene considerato il più antico e il più sacro; quello del re il più prestigioso e importante. Seguono le famiglie più vicine al sacerdote e al re, senza delle quali né il sacerdote, né il re potrebbero svolgere adeguatamente il proprio compito e che formano la cosiddetta aristocrazia. Un particolare valore viene accordato a coloro che sono preposti alla difesa della città, cioè i guerrieri. Sul gradino successivo vengono collocati coloro che si occupano di allevamento e agricoltura, i quali sono considerati i naturali successori degli antichi cacciatori-raccoglitori, mentre all’ultimo posto si posizionano gli artigiani e i mercanti, le cui attività paiono rompere con la tradizione e sono guardate con sospetto.
Chi occupa i gradini più bassi della gerarchia sociale è costretto a vivere di stenti ed espedienti, questo è ovvio, ma la vita non è facile nemmno per il capo, il quale, da un lato deve guardarsi dalle mire espansionistiche di potenze straniere, dall’altro lato deve proteggere dalle incursioni dei predoni le campagne, da cui proviene il surplus necessario al funzionamento dello Stato. A ciò si aggiunga il fatto che, talvolta, qualche tribù sottomessa si ribella e rifiuta di pagare il tributo, riducendo così le entrate dello Stato. Ora, se in questi momenti di crisi, in cui le spese crescono e le entrare calano, il capo non sa fare di meglio che aumentare ulteriormente il carico fiscale, fino a mettere in pericolo la stessa sussistenza dei contadini, monta il malumore fra i sudditi e aumentano il numero di furti, gli atti di violenza e i disordini sociali, di cui talvolta rimangono vittime lo stesso capo o membri della sua famiglia o del suo seguito.

I nomadi e le leghe tribali
La situazione non è migliore per le popolazioni nomadi che, essendo abituate a vivere in condizioni di equlibrio precario, mal sopportano sia le frequenti avversità naturali, sia i rari momenti di crescita demografica. I nomadi versano in perenne condizione di crisi, che, tuttavia, talvolta diventa acuta e insostenibile, inducendoli a decisioni estreme. Quando l’insoddisfazione è diffusa e la domanda di soluzioni giunge perentoria ad uno sciamano particolarmente ambizioso e volitivo, questi può cogliere l’occasione per avviare la mobilitazione generale della tribù, allo scopo di assalire un ricco villaggio o una città e impadronirsi dei suoi beni. Se poi l’obiettivo, oltre ad essere molto appetibile, fosse anche ben difeso, un leader tribale potrebbe riuscire nella difficile impresa di unire intorno a sé e al proprio dio altre tribù costituendo così potenti leghe (o alleanze anfizioniche) e realizzando imprese memorabili che sono note alla storia. In caso di successo, sui leader protagonisti e sulle loro gesta iniziano a circolare racconti leggendari e miti [Nella Bibbia si parla di alcuni leader tribali, come Gedeone, Sansone e Giosuè, i quali seppero mettersi alla testa di leghe e condurre lotte armate contro le città. Le leggende e i miti sul loro conto sono riportate nel testo sacro, nei libri dei Giudici e di Giosuè. Si tratta di una lettura sicuramente gradevole e istruttiva], destinati a rimanere impressi nella memoria della gente per molto tempo. Abitualmente una lega rimane unita fintantoché perdurano le condizioni di crisi che l’hanno prodotta e i leader che l’hanno resa possibile, dopodiché ciascuna tribù si richiude in se stessa e tutto ritorna come prima.
In realtà, a causa dello spirito libero e indipendente delle popolazioni nomadi, la costituzione stabile di una lega tribale non è un’impresa facile. Infatti, in tutto il corso della storia, le imprese memorabili compiute da leghe tribali non sono frequenti, anche se non sono nemmeno del tutto eccezionali. È molto più frequente invece la costituzione di città e Stati da parte di popolazioni contadine, e sono queste ultime a scrivere per la gran parte i capitoli della storia, comprese la pagine più nere dei genocidi. Secondo il mito biblico, Caino uccide Abele, il selvaggio nomade uccide il mite agricoltore. In realtà, questa è solo l’eccezione. La regola è invece che il contadino stermina il selvaggio nomade, fino alla sua pressoché totale estinzione.

Ricostruzione libera di un evento di 5,5 Kyr fa: alle origini dell’Egitto faraonico
All’inizio del Neolitico, intorno a 8 Kyr fa, l’intera valle del Nilo è disseminata di regni, città fortificate, villaggi, signorie locali, pastori nomadi, agricoltori e gruppi armati, un guazzabuglio di centri di potere, grandi e piccoli, fra di loro in rapporto variabile e in equilibrio precario e instabile. Ora, noi sappiamo dai libri di storia che, intorno a 5,2 Kyr fa, si è affermato in Egitto il sistema faraonico. Quello che non sappiamo è cosa sia successo in questi tremila anni e come si sia giunti all’idea e all’affermazione del primo faraone. Ancora una volta dobbiamo ricorrere alla nostra immaginazione.
Iniziamo la nostra preistoria da un dominio, di nome Thinis, che si trova in lotta con altri dominî per l’egemonia della regione, mentre è operativo un potente sciamano, che chiamiamo Torrente Incontenibile. Costui non è solo uno sciamano, ma anche un impavido e lucido guerriero, che non esita a servirsi della forza per imporre la propria volontà sulle tribù confinanti, che riesce a unire in un sol popolo sotto il proprio comando, ma fa fatica a manenere la pace, perché le diverse tribù sottomesse si sollevano continuamente in difesa della propria autonomia e delle proprie tradizioni. Chiamato a dare spiegazioni dalla gente della propria tribù, in un periodo di tensioni sociali particolarmente acute, che sono causate principalmente dalla carenza di viveri, Torrente Incontenibile convoca in assemblea i suoi più stretti collaboratori, insieme ai rappresentanti delle tribù insofferenti, in tutto una trentina di uomini, e dinanzi a loro giustifica il proprio operato affermando che egli non ha fatto altro che seguire fedelmente le disposizioni del dio. Ecco il suo discorso:
Ancora una volta, il nostro dio, che mi ha parlato ieri nel sogno, ha ribadito la sua ferma volontà che tutte le tribù, oggi unite dalla forza delle armi, rimangano unite anche in condizioni di pace e facciano capo a questo villaggio, che solo può assicurare loro un’adeguata protezione da ogni possibile minaccia, a patto che siano disposte ad osservare i comandi, che lui vorrà impartire attraverso la mia persona. In particolare, egli vuole che io diventi suo sacerdote per sempre e che voi mi giuriate fedeltà incondizionata e collaboriate con me al suo servizio. D’ora in poi anche voi sarete chiamati servi del dio e braccio destro del suo sciamano e tutto ciò che farete, nel rispetto della sua volontà, sarà da lui benedetto. Anche i guerrieri dovranno giurarmi fedeltà incondizionata e impegnare la loro forza a far sì che i comandi divini vengano osservati da tutti. Per quel che riguarda la giustizia, il nostro dio ordina che nessuno dei suoi figli abbia a soffrire la fame e, pertanto, impone che si distribuisca il cibo necessario a chi ne sia sprovvisto, prelevandolo dalle offerte sacre. Tutti potranno trarre beneficio dal nuovo ordinamento e tutti potranno essere felici. Tuttavia, se qualche controversia dovesse turbare il quieto vivere, essa verrà portata dinanzi a me, e io la giudicherò con spirito imparziale e secondo la volontà del dio. Se faremo ciò, il nostro dio assicura che nessuno di noi d’ora in poi dovrà patire la fame e che non avremo mai da temere l’azione di nemici.

Mentre così parla, lo sciamano pare ai presenti veramente ispirato e tutti sono disposti a credere alle sue parole, anche perché esse sono interpretate come una speranza di progresso per l’intera popolazione, che potrà contare sulla benedizione del dio, diventare oggetto sacro e avere l’opportunità di migliorare le proprie condizioni di vita. Così Torrente Incontenibile diviene il primo sacerdote-re della storia e si avvia a governare stabilmente la popolazione di Thinis, sia pure nel nome del dio. Per prima cosa distribuisce tutto il surplus alle famiglie più bisognose e fa in modo di sollevare il morale della gente e guadagnarsi la loro fiducia, ottenendo l’effetto sperato, che è quello di far cessare i disordini sociali e disporre le famiglie a collaborare e ad obbedire ai propri comandi. Ora è in grado di esercitare un’indiscussa autorità e può imporre delle norme e farle rispettare, un po’ col timore del castigo divino, un po’ con la forza delle armi, e svolgere la funzione non solo di interlocutore privilegiato col dio e di legislatore, ma anche quella di governatore e giudice supremo di quella che adesso è una città.
Sotto Torrente Incontenibile la Casa del dio si ingrandisce a tal punto da ospitare il sacerdote-re e i suoi ministri e meritare il nome di Tempio: quello di Thinis è il primo vero tempio della preistoria. Da qui, il sacerdote e i suoi funzionari, protetti da un folto gruppo di guardie armate, amministrano non solo le risorse del dio, ma anche tutta la città e le tribù da essa dipendenti. I funzionari di più alto grado svolgono ruoli diversi, ma tutti di grande importanza: alcuni controllano il magazzino e il regolare versamento dei tributi, altri si occupano della demarcazione e della difesa delle zone di confine, altri sono impegnati a mantenere il collegamento della realtà presente con il passato e con le divinità, altri vanno in cerca di eventuali segni della divinità, e via dicendo. Il governo sacerdotale-monarchico si rivela capace di garantire un minimo di ordine nelle città e a portare la pace nell’intera regione, affermandosi come la migliore forma possibile di governo urbano.
La pace sociale a Thinis regna già da molto tempo e i maggiori pericoli possono venire ora solo dall’esterno, cioè da possibili attacchi armati di tribù nomadi o di altri dominî, che puntualmente si verificano, e non di rado, ma, per il momento, la situazione sembra tranquilla. Alla morte di Torrente Incontenibile, sale al potere Sole Splendente, famoso per le sue doti militari e per la sua abilità in campo politico. Già dal momento del suo insediamento, il nuovo capo stabilisce buoni rapporti con le tribù vicine e fa di tutto per guadagnarsene amicizia e riconoscenza; nello stesso tempo governa la città con moderazione e giustizia, badando soprattutto a garantire il necessario per la sussistenza a chi ne sia sprovvisto e a soccorrere quanti si rivolgano a lui con richieste di aiuto, accattivandosi in tal modo un vasto consenso interno. Adesso egli può allungare lo sguardo all’esterno, verso gli altri dominî della regione, soprattutto quelli più deboli e quelli che si trovano in difficoltà, ai quali offre il proprio aiuto, riuscendo, infine, a condurli nella sfera della propria influenza e a conquistarsene la fedeltà. Ora è il momento di concentrare l’attenzione su un dominio potente, chiamiamolo Arbis. Sole Splendente aspetta che si presenti il momento propizio per poterlo attaccare e il pretesto arriva con la richiesta di aiuto da parte del capo di una tribù, il quale lamenta razzie sistematiche nel proprio territorio da parte di uomini di Arbis. Sole Splendente non si lascia pregare troppo e, dopo aver conquistato il dominio, divide l’ingente bottino fra tutti coloro che lo hanno sostenuto nell’impresa e la sua fama si diffonde rapidamente. Sole Splendente è l’uomo del momento, il più saggio, il più forte, il più amato dagli dèi. Al suo cospetto i sacerdoti si inchinano. È lui il sacerdote, lui il condottiero, lui il legislatore, lui il giudice supremo, lui il buon padre di tutti. Il suo potere è immenso e si estende ora a quattro dominî: Thinis, Arbis, Comar e Tepi. Anche le tribù nomadi della regione lo rispettano e la sua volontà è legge.
All’apice della gloria, Sole Splendente, che ormai è considerato da tutti un vero e proprio re-guerriero, vuole che vengano ringraziate tutte le divinità tutelari e ordina che venga costruito un tempio in materiale non deperibile, affinché il ricordo del suo regno rimanga imperituro. È il primo tempio in pietra della preistoria. Accanto ad esso il re fa costruire la sua reggia, anch’essa in muratura, mentre i suoi collaboratori più stretti fanno a gara per imitarlo e ciascuno, secondo le proprie possibilità economiche, si fa erigere una propria dimora in pietra tutt’intorno al palazzo del capo supremo. Si tratta di strutture che i posteri potranno definire modeste, ma sono anche le prime strutture in materiale non deperibile costruite dall’uomo. Visibilmente raggiante, Sole Splendente ordina che il tempio, il palazzo reale e le case di tutti i suoi fedeli servitori siano adeguatamente difesi e ordina di erigere un grande muro di cinta. Ecco la prima cittadella della preistoria, il cuore di Thinis: c’è un tempio e un palazzo, ci sono uffici per i funzionari, botteghe per gli artigiani, alloggi per un centinaio di soldati, magazzini per le riserve alimentari e stalle. Non si era mai visto nulla di simile prima. Adesso Thinis è il più importante centro di potere politico, economico e militare della regione, una vera e propria città, e tutti guardano ad essa e al suo capo con ammirazione e rispetto.
La fama di Sole Splendente induce molti a raccontare le sue gesta, che vengono arricchite con aneddoti fantasiosi, il che fa di lui un personaggio leggendario. Alcuni cercano di emularlo, ma solo uno vi riesce: Cielo Stellato, re di Mendes. Anch’egli è riuscito ad estendere il proprio potere su quattro dominî e la sua fama è di poco inferiore a quella di Sole Splendente. I due re si temono e, finché possono, vivono in pace e ognuno si accontenta della propria gloria. Ma giunge il giorno in cui ciò non è più possibile. È il giorno in cui degli emissari di una tribù amica si rivolgono a Sole Splendente, implorandolo di proteggerli dalle angherie che sono costretti a subire da parte degli uomini di Cielo Stellato. Sole Splendente minaccia di attaccare Cielo Stellato nel caso in cui perseveri nelle sue azioni, ma quello non sembra intimorito e tergiversa. Nessuno dei due vuole cedere all’altro, ma nessuno dei due si sente così superiore all’altro da attaccarlo a cuor leggero.
Col passare del tempo lo scontro appare ormai inevitabile e i due re cominciano a prepararsi, ma, essendo consapevoli di disporre di forze pari, si muovono con prudenza. Per prima cosa avviano una politica di propaganda tesa a ottenere la massima collaborazione da tutti i propri sudditi e dagli alleati. Il nemico viene dipinto come estremamente malvagio e sanguinario. Se vincesse, si va dicendo, ucciderebbe tutti gli uomini e terrebbe per sé i beni e le donne, ma, si aggiunge, se fossero loro a sopraffare il nemico, diventerebbero ricchi e felici. Il coinvolgimento è massimo e tutti si sentono psicologicamente pronti a intraprendere un’azione armata, ormai ritenuta inevitabile e opportuna, tutti ardono dal desiderio di schiacciare il nemico e confidano nel determinante appoggio delle divinità tutelari, tutti procedono a grandi passi verso quell’evento straordinario, che si delinea per la prima volta nella preistoria dell’uomo, un evento del quale ancora non si conosce nemmeno il nome, ma destinato a diventare sempre più familiare nel futuro: la guerra.
Siamo, dunque, nel Nord dell’Egitto circa 5.500 anni fa, e gli uomini si preparano alla prima guerra, un evento ben diverso dagli scontri armati del passato, che potevano definirsi semplici scorribande, scaramucce, incursioni, razzie, colpi di mano, ossia scontri in buona parte improvvisati, di breve durata e di modesta entità, che coinvolgevano poche decine, al massimo un centinaio di persone. Adesso di fronte ci sono due re potenti, che controllano otto città e una decina di tribù, per complessivi 15-20 mila sudditi, tutti sensibilizzati alla lotta e tutti determinati e convinti di doversi giocare la vita in un campo di battaglia. Ciascun re può mobilitare una massa di uomini armati mai vista prima, un vero e proprio esercito composto di centinaia di soldati, e il fatto comporta tutta una serie di problemi assai difficili da risolvere, dal momento che non si conoscono precedenti. Come disciplinare centinaia di uomini? Dove alloggiarli? Come armarli? Come addestrarli? Come guidarli? Come dispiegare la loro forza in modo ordinato ed efficace e senza creare confusione e danni per sé? La risposta ultima a queste domande spetta ai due re, i quali ne sono perfettamente consapevoli e non hanno alcuna intenzione di sottrarsi alle proprie responsabilità. Ed ecco cosa fanno.
Per prima cosa ciascuno di essi convoca i sacerdoti delle quattro città che controlla e rivolge loro queste parole: “dobbiamo essere consapevoli che lo scontro a cui ci stiamo preparando prevede solo due alternative: vivere o morire. Al vincitore il dio concederà potere e felicità, al perdente toglierà tutto. Ma, si sa, gli dèi stanno dalla parte dei più coraggiosi e premiano il popolo che sa organizzarsi meglio. Perciò è necessario che riuniamo le migliori forze del regno e ci muoviamo con intelligenza e determinazione. Solo così potremo sconfiggere un nemico tanto malvagio quanto formidabile. E allora vi chiedo: su quanti uomini possiamo contare?”. Dalle risposte dei sacerdoti si calcola che si possono ragionevolmente reclutare circa 500 guerrieri, un numero che sembra stratosferico. Il re allora raccomanda: “scegliete i migliori. Solo i migliori”. Poi dice: “preparatevi prima possibile e quando sarete pronti informatemi”. E aggiunge: “ciascuno di voi guiderà i suoi personalmente e, se non vi sentite all’altezza, vi farete sostituire da un condottiero di vostra scelta. Una cosa dev’essere chiara: voi dovrete ubbidire ciecamente solo ai miei comandi, mentre io ubbidirò solo al dio e cercherò di meritare i suoi favori”. Poi conclude: “siate certi che saprò valutare il vostro comportamento e vi ricompenserò secondo la vostra fedeltà e il vostro valore”. Dopo aver assicurato il loro appoggio incondizionato, i sacerdoti chiedono al re se abbia disposizioni da impartire circa l’armamento dei guerrieri e ricevono due risposte diverse: Sole Splendente ordina che ciascun guerriero porti con la mano sinistra un lungo bastone appuntito, con la destra una mazza; Cielo Stellato invece comanda che i suoi guerrieri vengano armati di fionda e ascia a doppia impugnatura.
Tornati alle loro case i sacerdoti ordinano agli artigiani di costruire le armi secondo la volontà del re e li ammoniscono: “fate in modo che le armi siano perfette, perché è in gioco la vita di tutti. Se lavorerete bene sarete adeguatamente ricompensati”. Gli artigiani rispondono con entusiasmo e subito cominciano a costruire le armi stabilite, facendosi aiutare da donne e ragazzi, che si danno un gran da fare a cercare le pietre e i rami migliori. Mentre gli artigiani realizzano bastoni, asce, mazze e fionde, secondo le istruzioni ricevute, i sacerdoti preferiscono rimanere in paziente ascolto, pronti a cogliere ogni segno, ogni messaggio inviato dagli dèi. Questo compito pare ad alcuni di essi così importante che preferiscono rinunciare ad occuparsi direttamente degli affari bellici e nominano dei condottieri di loro fiducia. Ciascuno dovrà interpretare il ruolo che gli è più congeniale: la posta in gioco è troppo alta e non si può fallire.
I primi ad ultimare i preparativi di guerra sono gli uomini di Sole Splendente, che ne informano il re e rimangono in attesa di sue disposizioni. Il re comanda che tutti i guerrieri vengano schierati davanti al suo palazzo, e così vien fatto. Cinquecento guerrieri sono ordinati in quattro schiere, una per città, ciascuna guidata da un condottiero: uno spettacolo unico e superbo, mai visto in precedenza. Ed ecco che il re si affaccia dal suo terrazzo e saluta con le braccia levate, ricevendo per risposta un boato di acclamazione. Ha tutto il corpo vivacemente colorato, sul capo un teschio di antilope dalle lunghe corna e, legata al collo, una pelle d’asino, che gli scende sulle spalle e svolazza agitata dal vento. Non solo il suo abbigliamento, ma anche il suo portamento, i gesti e il tono della voce, lo rendono diverso da tutti gli altri, un personaggio carismatico, un vero capo. Aspetta che le schiere facciano silenzio, poi dice, scandendo e urlando ogni singola parola: “Ho ricevuto dal dio l’ordine di uccidere Cielo Stellato. Combattete con coraggio. Il vostro valore sarà ricompensato. Dio è con noi. Seguitemi”. Detto ciò, si muove a piedi alla volta di Mendes, seguito dai guerrieri e da uno stuolo di ragazzi, donne e anziani, che portano armi di scorta e viveri sufficienti per tre giorni di marcia, quanti se ne prevedono per giungere a destinazione.
Saputo del nemico in avvicinamento, Cielo Stellato si affretta a radunare i suoi guerrieri e li schiera nelle immediate vicinanze della sua città, quindi ordina loro di disporsi uno accanto all’altro, in modo da formare un fronte il più lungo possibile e alle donne e ai ragazzi di portare quanti più sassi possono e farne tanti mucchi, uno per ogni guerriero. Secondo il re, la fionda dovrebbe rivelarsi l’arma vincente. Hanno appena finito di schierarsi, quando scorgono in lontananza il nemico, che avanza compatto e a passo deciso. Davanti a loro, il terreno scende in leggero pendio. Giunto a meno di cinquecento metri dal nemico, Sole Splendente incita i suoi e tutti iniziano una corsa in crescendo. Freddamente, Cielo Stellato aspetta che il nemico sia a meno di cento metri prima di ordinare il lancio di pietre a volontà. Una fitta pioggia di sassi si abbatte sugli uomini di Sole Splendente uccidendone alcuni e ferendone molti, ma essi, noncuranti di quei micidiali proiettili, che li colpiscono da ogni parte, continuano ad avanzare e si avventano al centro del fronte allungato dei nemici, i quali si disgregano: alcuni vacillano, altri indietreggiano o fuggono alla ricerca di una posizione favorevole per il combattimento, altri si battono corpo a corpo. Gli uomini di Cielo Stellato hanno qualsi cessato di lanciare sassi per paura di colpire i propri compagni e si gettano nella mischia. Adesso il campo di battaglia si è trasformato in un parapiglia, dove c’è chi combatte, chi corre, chi insegue, chi contrattacca: più che una battaglia sembra una rissa furibonda, che si svolge nel più completo disordine e senza schema alcuno.
Pur combattendo con grande accanimento, gli uomini di Cielo Stellato si vengono a trovare in stato di inferiorità e le sorti dell’incontro sembrano per loro ormai segnate, quando un sasso colpisce mortalmente Sole Splendente, seminando il panico fra i suoi uomini e rovesciando le sorti della battaglia, che si conclude dunque con il trionfo di Cielo Stellato. Gli sconfitti vengono trattati con estrema ferocia: fatta eccezione delle giovani donne, che vanno in premio ai vincitori, e di quanti riescono fortunosamente a nascondersi in qualche luogo remoto, tutti gli altri vengono uccisi e i loro corpi gettati nel fiume in pasto ai coccodrilli. Di Sole Splendente e del suo popolo non resta più traccia. Le sue terre, i suoi dominî, le sue città e i suoi beni passano al re vincitore, che diviene così l’uomo più potente della regione.
Dopo il trionfo, Cielo Stellato si fa notare per alcune azioni altamente simboliche e di grande rilevanza pratica. Innanzitutto egli stabilisce che agli eroi caduti in battaglia vengano tributati onori pari al loro valore e ordina che i loro corpi vengano bruciati, così che i loro spiriti siano liberi di volare verso il dio grande e partecipare della sua gloria e della sua potenza. È la prima volta che l’onoranza funebre, pubblica e solenne, entra a far parte del costume sociale. Il re non dimentica nemmeno le divinità che lo hanno sostenuto e, a titolo di ringraziamento, vuole dedicare loro un tempio, la cui costruzione affida alle sue migliori maestranze. Ma sono soprattutto i sopravvissuti, le persone in carne ed ossa, che si aspettano dal re una ricompensa tangibile per il loro contributo alla vittoria, e il re non vuole deluderli, perché sa che di essi potrà ancora avere bisogno. Così, avendo deciso in cuor suo di distribuire il territorio nemico tra le famiglie, in rapporto al loro grado di partecipazione e al valore dimostrato in battaglia, Cielo Stellato convoca in assemblea i sacerdoti, i funzionari e i comandanti militari e, dando prova di esemplare saggezza e moderazione, parla loro in questi termini:
Amici, il nostro grande dio vittorioso mi ha incaricato di spartire le terre conquistate. Ebbene, io ho notato che anche coloro che non hanno partecipato direttamente al combattimento si sono impegnati e tutti hanno contribuito, ciascuno secondo le proprie possibilità, al conseguimento della vittoria. Tutti perciò debbono partecipare in modo uguale dei vantaggi. Orbene, oggi do ordine ai miei funzionari e condottieri di dividere, d’intesa coi sacerdoti, questo territorio, in modo tale che a ciascuna famiglia ne tocchi una parte equivalente. Per quello che mi riguarda, il nostro amato dio vuole che io sia re e sommo sacerdote insieme. Così sia fatto.

Così vien fatto. Adesso tutte le famiglie sono diventate affidatarie di un pezzo di terra, che è ampiamente sufficiente per il proprio fabbisogno, e ciascuna provvede alla sua coltivazione. Ogni appezzamento di terreno è chiaramente demarcato o da un elemento naturale, come cespugli, alberi, pietre, ruscelli, fiumi, laghi, e altro ancora, oppure da elementi appositamente realizzati dagli artigiani, come stele di pietra, cippi di legno o altri segnali di vario genere, che svolgono la funzione di segnali di confine e, insieme, avvertimenti indirizzati ad eventuali malintenzionati: «Attenzione! Questo terreno ha un proprietario determinato a difenderlo con ogni mezzo: nessuno osi superarne i confini!» Si fa eccezione solo per gli artigiani, tenendo conto del fatto che, se producono manufatti, non possono occuparsi contemporaneamente della terra e, di conseguenza, viene loro assegnato lo spazio necessario per poter svolgere la loro attività. Dalla spartizione vengono esclusi il dio, il re, insieme ai suoi più stretti collaboratori, e i sacerdoti, per una ragione facilmente intuibile: il vero padrone di tutto è il dio, ed essi ne sono gli amministratori. In pratica, la classe dominante non partecipa alla spartizione, perché ha tutto.
Resta la questione dei quattro condottieri, i quali, in virtù del loro ruolo, si aspettano un riconoscimento particolare. E così avviene. A loro Cielo Stellato affida l’amministrazione dei quattro dominî conquistati e, di fatto, dà loro carta bianca: di quei dominî essi saranno padroni e signori, a condizione di versare un tributo mensile al loro re e di restargli fedeli. Ogni condottiero, dunque, insieme alla propria famiglia, si insedia nel dominio a lui assegnato, in una sontuosa dimora, appositamente fatta erigere per lui accanto al tempio, e si circonda di guardie armate, funzionari e servi, ma anche artigiani e mercanti, che trovano nel nuovo signore e nella sua cerchia degli ottimi acquirenti dei loro prodotti e delle loro mercanzie. Adesso i condottieri sono diventati veri e propri sovrani, possono attuare le loro politiche, che, all’atto pratico, si rivelano sostanzialmente simili.

La proprietà privata
Così, i nuovi sovrani distribuiscono ai propri amici e alla propria gente, secondo certe regole di merito largamente condivise, il territorio conquistato, in cambio di un piccolo tributo mensile. Si stabilisce, insomma, un rapporto di vassallaggio e quel che ne risulta, infine, è un sistema sociale nettamente piramidale. Idealmente, il sovrano assoluto è il dio, cui spetta il merito ultimo della vittoria ed è lui che governa; in pratica il potere è esercitato dal suo vicario in terra, ossia il grande re vittorioso e, a scalare, dai condottieri, che hanno assunto lo status di monarchi di secondo livello, e dai collaboratori e amici dei condottieri, che diventano monarchi di terzo livello, ossia signori locali, e via dicendo. È così che nasce, nel Neolitico, l’idea di proprietà privata, come una diretta conseguenza delle attività belliche e di una concezione religiosa del mondo. Il tutto è proprietà privata del dio; i regni sono proprietà privata dei re; i grandi lotti di terra sono proprietà degli amici dei re che, a loro volta, li distribuiscono fra i loro amici, sì da costituire una grande rete mutualistica, fondata non su qualche astratto principio di giustizia, ma semplicemente sulla forza delle armi. «Io, re vittorioso, concedo a te, amico e sostenitore, la proprietà di questa terra e di coloro che vi abitano, in cambio di un tributo e della tua fedeltà». Potrebbe essere questa la formula per mezzo della quale un signore distribuisce le terre conquistate ai capi-clan che lo hanno appoggiato.
Ora, il ricco proprietario dispone di un grande territorio e di uno stuolo di schiavi, che egli ha conquistato con la forza e con la forza deve proteggere e conservare. La proprietà privata non è ancora un diritto acquisito e riconosciuto, ma soltanto un oggetto di desiderio e di competizione. Essa, di fatto, appartiene al più forte e può essere perduta se, per una qualche ragione, non si ha più la forza sufficiente per difenderla.
Alla base dell’istituzione della proprietà privata c’è l’interesse del re di legittimare il proprio potere, che non potrebbe sussistere in assenza di collaboratori potenti. E, in effetti, la proprietà altro non fa che rendere potenti coloro che sono designati a collaborare col sovrano nella sua azione di governo. Sennonché, l’istituzione della proprietà privata, sia pure di tipo collettivo, se da un lato evita alle famiglie proprietarie l’estenuante competizione per l’accesso alle risorse, dall’altro lato è portatrice di nuovi problemi. Infatti, più aumenta la quantità dei beni posseduti e più aumenta il rischio di furto, di rapina e di frode e, dunque, di disordine e instabilità sociale. Ciò, a sua volta, rafforza l’esigenza di un monarca particolarmente autorevole e forte, in grado di imporre la propria volontà, organizzare la vita sociale, stabilire obblighi, concedere benefici, decidere la vita e la morte, la pace e la guerra, in modo rapido e certo.
Il processo è circolare e si autoalimenta, nel senso che parte dalla forza e richiede nuova forza. Infatti, da un’azione di forza deriva la conquista, dalla conquista deriva la spartizione delle terre e quindi la proprietà privata, dalla necessità di tutelare la proprietà privata deriva la domanda di una forza coercitiva permanente, la quale, a sua volta, può essere impiegata per realizzare nuove conquiste. “Nato dalla guerra e grazie alla guerra, lo Stato [...] ha continuato a operare come una macchina da guerra, votata alla conquista di altri territori e all’assoggettamento di altri popoli” (PELLICANI 1998: 788). Lo Stato dunque nasce dalla violenza e sopravvive grazie alla forza delle armi. “Nessun ordinamento sociale esteso – afferma H. Popitz – riposa sulla premessa della non-violenza. Il potere di uccidere e l’impotenza della vittima sono fondamenti latenti o manifesti di determinazione della struttura della convivenza sociale” (1990: 76). Ma perché la forza è così importante per lo Stato? A che serve tanta forza? Serve a tutelare l’ineguale distribuzione dei beni e soprattutto della proprietà privata introdotta dalla guerra.
In realtà una sorta di proprietà privata era già nota ai primi villaggi di agricoltori in ottemperanza al principio che la terra (quantomeno il suo frutto) è di chi la lavora. Ebbene, questo principio nello Stato non più così tassativo: nello Stato la terra appartiene al condottiero che l’ha conquistata e ai suoi generali, che però abitualmente la fanno lavorare ad altri (affittuari, servi). In pratica, adesso la terra non è più necessariamente di chi la lavora. Nello Stato il proprietario della terra non solo non è tenuto a lavorarla, ma può anche trasmetterla in eredità ai figli, anche se questi continueranno a non lavorarla. La proprietà non più sinonimo di lavoro, ma diventa patrimonio di famiglia. Del resto, grazie alla divisione del lavoro, ora esiste un crescente numero di persone che ricava il proprio sostentamento da attività di tipo dipendente o servile (soldati, coloni) oppure un lavoro manuale (artigiani), lavori che prescindono dalla necessità di essere proprietari di un immobile. La novità, dunque, è questa: nello Stato ci sono famiglie proprietarie e famiglie nullatenenti, famiglie che possiedono grandi estensioni di terreni che fanno lavorare a personale servile e famiglie che possono contare solo sulle proprie braccia, famiglie ricche e famiglie povere.

Il diritto
In generale, in tutto il Neolitico non si è ancora affermata l’idea di diritto e ogni posizione di privilegio sociale si fonda su rapporti di forza. Abitualmente le famiglie si fanno giustizia da sé e solo raramente ricorrono all’arbitrato di un giudice. Dovrà trascorrere del tempo prima che si avverta l’esigenza di un codice di norme giuridiche e di qualcuno capace di farlo rispettare.

Il Regno del Nord
Adesso, circa la metà dell’intera popolazione del regno di Cielo Stellato vive dentro le mura delle otto città, ciascuna delle quali ospita una media di 1.500 persone, con l’eccezione di Thinis, la capitale, che ne ospita oltre 3.000. L’assetto politico di ogni città si articola intorno a due centri di potere: il Tempio e il Palazzo (il Sacerdote e il Re), ciascuno dei quali è coadiuvato da un certo numero di uomini di fiducia, i funzionari.
Per quanto apparentemente stratificata, la società del nuovo regno è ancora sostanzialmente egualitaria. Finita la guerra, infatti, i guerrieri sono ritornati al lavoro dei campi e tutti, o quasi, devono vivere del proprio lavoro. Le uniche vere eccezioni sono costituite dal re e dal sacerdote, i quali comunque sono tenuti a svolgere un lavoro, sia pure di tipo non manuale, che è quello di amministrare i beni del dio. Solo il re e il sacerdote dispongono molto più di quanto sia strettamente necessario per la sussistenza propria e dei propri collaboratori, ma la loro condizione di privilegio è legata alla carica, non alla persona. In quanto amministratori, il re e il sacerdote debbono fare la volontà del dio, soccorrere il bisognoso e garantire la giustizia sociale. I funzionari invece vivono di luce riflessa e partecipano dei beni del palazzo e del tempio, secondo quanto è loro consentito dal re e dal sacerdote. Essi formano una sorta di aristocrazia virtuale, piuttosto che una classe sociale provvista di propri beni e propri poteri.
Quando muore, Cielo Stellato viene salutato come un dio e il suo corpo, come ormai è divenuto consuetudine, viene bruciato affinché il suo spirito si liberi e raggiunga la sfera divina. Chi dovrebbe prendere il suo posto? Certo, un uomo altrettanto degno. Ma chi? Nessuno può dirlo. Ancora una volta spetta al sacerdote mettersi in ascolto per captare i messaggi del dio. La scelta cade su Figlio di Tuono, un uomo capace e dalla forte personalità, che, a differenza del predecessore, non essendoci in quel momento pericolo di guerre, deve dividere il potere col sacerdote. Il nuovo re si occupa innanzitutto di stabilizzare la situazione che ha ereditato e, per prima cosa, ordina ai suoi funzionari di censire tutti i gruppi familiari del regno e di diffondere a tutti la seguente notizia: il re è l’unico padrone di tutto e tutto è sotto il suo paterno controllo, ogni famiglia è sotto la sua protezione e chiunque a lui si può rivolgere per ricevere aiuto e giustizia. In cambio ciascuno deve dare al re, con fiducia e onestà, una parte stabilita dei propri beni. La gente risponde positivamente all’appello e, per poter immagazzinare gli ingenti tributi e ben amministrarli, vengono ampliati i magazzini del palazzo reale. Il re ordina anche che venga aumentato il numero dei funzionari, ma il loro compito si rivela più complesso del previsto: come ricordare le centinaia di famiglie che costituiscono il regno? E come ricordare la quantità e la regolarità di versamento dei loro rispettivi tributi? E’ per risolvere questo problema che i funzionari inventano l’arte della scrittura, ossia la tecnica di riproduzione grafica di nomi, concetti e numeri.

Il problema demografico
Per un po’, la disponibilità dei territori, che si sono resi liberi dopo l’eliminazione degli sconfitti, inaugura una fase di abbondanza e rende possibile la crescita demografica dei vincitori. Dopo un certo tempo, però, l’incremento demografico finisce per superare il limite, oltre il quale le risorse ricominciano a scarseggiare e alcune famiglie, mancando del necessario per la sussistenza, si vedono costrette a ricorrere ad espedienti, a furti o a rapine. Più si diffonde la criminalità, più cresce la paura e il bisogno di sicurezza. Per far fronte al malessere montante, i signori locali di secondo e terzo ordine si attivano nella speranza di riuscire a sfruttare la situazione a proprio vantaggio e qualcuno tenta la scalata al potere, per esempio, dopo essersi conquistato l’appoggio delle famiglie più disagiate in cambio di promesse. Col tempo si creano nuovi equilibri sociali, che vengono interpretati come segno di destabilizzazione e non manca chi addossa al grande re la responsabilità della crisi. Qualcuno ne approfitta per cavalcare il malessere sociale e, appellandosi ad un qualche volere divino, cerca alleati e si prepara a detronizzare il grande re e prendere il suo posto. Vicende di tal fatta sono alquanto frequenti e il loro esito incerto: a volte ha la meglio il re in carica, altre volte uno sfidante, in altri casi la situazione sociale rimane fluida per molto tempo e si risolve solo quando qualcuno (il re in carica, lo sfidante o un outsider) riesce a volgere l’attenzione della gente all’esterno e lancia con successo l’idea di una nuova guerra di conquista. A questo punto, il ciclo ricomincia.

La logica del potere politico
Abbiamo visto come, nel Delta del Nilo, fra 8 e 5,5 Kyr fa, partendo da un quazzabuglio disordinato di clan, tribù e dominî, si siano costituite prima città e poi regni. È per questa via e attraverso passi progressivi che si è giunti infine all’unificazione di una vasta regione. Cielo Stellato (o chi per lui) è il primo sovrano del Regno del Nord. Intanto, qualcosa di simile è accaduto anche al Sud, dove, con modalità analoghe, si è costituito un altro Regno. Ebbene, solitamente i libri di storia iniziano da qui il loro racconto sull’Egitto e riferiscono di una leggendaria figura, il re Menes, che, intorno a 5,2 Kyr fa, sarebbe riuscita ad unificare i due Regni, dando così il via all’Egitto faraonico. I libri di storia non dicono nulla di Sole Splendente, né di Cielo Stellato e dei suoi successori, semplicemente perché di loro non è rimasta traccia, né scritta, né archeologica. E, secondo me, sbagliano. Infatti, se non ricostruiamo, anche in modo approssimativo, questa protostoria, faremo poi fatica a comprendere la storia dell’Egitto faraonico e la logica del potere politico in generale. In particolare, potrebbe sfuggirci il fatto che, alla base del potere politico, c’è il principio di forza, che è ben rappresentato dal fenomeno pervasivo della guerra.
Ma la forza, da sola, non basta a rendere duraturo un regno. Infatti, dopo la conquista, l’assetto politico del regno neocostituito rimane stabile finché c’è abbondanza di risorse, ma quando, o per un eccessivo incremento demografico o per qualsiasi altra ragione, si profila un periodo di crisi e il surplus del tempio non è più sufficiente a soddisfare la domanda delle famiglie bisognose, il re deve fare delle scelte: a qualcuno dà, a qualcun altro no. Quando c’è crisi nella città aumentano i furti e le rapine, e qualcuno non esita ad uccidere per ragioni di mera sussistenza. Anche il tempio è preso di mira e nessuno si sente al sicuro. In queste condizioni, molti avvertono la necessità di rafforzare le difese, ma ciò è impossibile perché mancano le risorse. Fra la popolazione urbana serpeggia il malcontento e per il re diventa sempre più difficile mantenere il controllo della situazione. Dello stato di debolezza della città spesso approfittano alcuni capi tribù e signorotti locali per rafforzare il proprio potere, depredare il palazzo e il tempio, saccheggiare villaggi e poderi. L’incremento della criminalità espone tutti ad alti rischi, in particolare i contadini, che devono temere per i loro beni, i pastori, che vengono derubati degli armenti, e, soprattutto, i mercanti, le cui merci rappresentano un facile e allettante obiettivo per le numerose squadre di predoni che si aggirano in ogni dove. Tensioni e conflitti armati scoppiano un po’ dovunque e il quadro che ne risulta fa venire in mente il celebre quadro descritto da Hobbes, della guerra di tutti contro tutti o dell’homo homini lupus.
Quando un re si sente abbastanza forte da tentare la conquista di una città deve stare molto attento ad evitare passi falsi, perché la situazione, che oggi è a suo favore, domani può improvvisamente volgerglisi contro. Il quadro politico, infatti, è reso complesso dalla coesistenza di molti centri di potere e un re minacciato può chiedere aiuto ad altri re, a capi tribali o a capibanda e inclinare il rapporto di forza a proprio favore. Il conquistatore di successo dev’essere dotato anche di qualità politiche, saper prevedere le mosse del nemico e pianificare le proprie mosse. Un re accorto non attacca una città senza prima aver creato la più vasta rete possibile di alleanze e complicità, in modo tale da non doversi trovare a combattere contro un fronte troppo vasto per le proprie possibilità. A guerra finita, il vincitore non divide più i territori conquistati in parti uguali, come nel passato, ma in base alle promesse fatte. È così che si va formando una nuova classe sociale, quella dei grandi proprietari od ottimati, che vanno a costituire una vera e propria aristocrazia. L’aristocratico è non più soltanto il funzionario del re-sacerdote, ma anche un capoclan o capobanda, che, essendosi schierato dalla parte del vincitore, in cambio di una promessa, si è guadagnato una bella fetta di bottino, sotto forma di terra, donne e schiavi, e, quindi, è diventato un ricco proprietario terriero. e, se vogliamo, un «piccolo» re.

La guerra
Se le prime «guerre», quelle fra due tribù, erano vissute prevalentemente come azioni necessarie, legate alla pura sopravvivenza, ossia come questioni di vita o di morte, e impegnavano nella loro totalità le due popolazioni in lotta, dopo la fondazione delle città e dei regni la guerra cambia significato ed espressioni. La ragione di questi cambiamenti risiede nel fatto che, a causa delle vaste dimensioni demografiche e dell’articolata stratificazione sociale della città, è improbabile che tutte le famiglie si sentano ugualmente motivate ad impegnarsi in un’azione di guerra. Se una famiglia sta bene, non ha alcun interesse a rischiare la vita in battaglia ed è restia a partecipare alla guerra. Diverso è il caso di alcuni signorotti locali, che possono intravedere nell’azione bellica un’occasione per incrementare il loro potere. Per costoro, la guerra cessa di essere una necessità, praticata ai fini della sopravvivenza, e diventa uno strumento per elevare le già buone condizioni di vita, diciamo per conquistarsi un regno personale o per ampliare quello che già hanno. Così, di tanto in tanto, emerge la figura di un leader, che riesce a unire intorno a sé un certo numero di clan, non solo quelli che sono spinti dalla fame, ma anche quelli che stanno bene, che sono attirati con la promessa di un futuro migliore: cibo a sufficienza per le prime, una grande proprietà terriera per le seconde.
Da questo momento la guerra viene a perdere la tradizionale spontaneità e si trasforma in calcolo (io mi associo ad altri e combatto insieme a loro, rischiando la vita, se penso che, in caso di vittoria, le mie condizioni potranno migliorare in modo netto) ed è in virtù di questo calcolo che il vincitore decide di abbandonare la vecchia pratica di sterminare i vinti, almeno quelli di sesso maschile, preferendo risparmiare i nemici e utilizzarli come schiavi. Da questo momento la schiavitù si andrà diffondendo dappertutto come diretta conseguenza della guerra di conquista. Nello stesso tempo, si afferma la figura del grande proprietario terriero o latifondista, che, disponendo di schiavi, non ha più bisogno di lavorare direttamente la propria terra e può accantonare un surplus, con cui sostentare una schiera di guardie armate e servitori.

La legittimazione del potere: il diritto, la religione, la letteratura e l’arte
È più facile conquistare il potere che mantenerlo. Come può un condottiero vittorioso sperare di incrementare indefinitamente le sue conquiste? L’esperienza insegna che, prima o poi, la spinta espansionistica si esaurisce ed emergono nuovi problemi, come la necessità di convivere con nuovi nemici interni o esterni, amministrare i popoli sottomessi, difendere i confini e garantire condizioni di pace, conservare e trasmettere il potere ai propri figli. Per questo, il condottiero che sale sul trono si preoccupa, da una parte, di assicurarsi entrate sufficienti a mantenere un esercito permanente e un efficace apparato amministrativo, dall’altra di legittimare il proprio status. “Ogni potere ambisce alla legittimazione” (POPITZ 1990: 83). Ma si preoccupa anche di imporre un codice di norme in grado di assicurare una vita sociale ordinata e prevedibile, e di risolvere le contese senza fare ricorso necessariamente alla forza. La costituzione di un regno o uno Stato è la risultante di un equilibrio tra la forza del diritto e la forza delle armi: “l’ordinamento sociale è una condizione necessaria del contenimento della violenza; la violenza è una condizione necessaria del mantenimento dell’ordinamento sociale” (POPITZ 1990: 80).
Un potere fondato esclusivamente sulla forza difficilmente potrà essere conservato a lungo, perché i rapporti di forza sono variabili e incerti. Si rende perciò necessario trovare un «qualcosa» da affiancare alla forza, al fine di renderla più solida e affidabile. Questo qualcosa è il diritto, ossia un sistema di norme che prevedono qualche concessione alle classi più svantaggiate, allo scopo di suscitare il loro consenso nei confronti del potere costituito. Alla fine, lo Stato “cessa di essere concepito come puro dominio e viene vissuto come l’istituzione grazie alla quale l’ordine e la pace sono garantiti nel quadro di valori e norme largamente condivisi” (PELLICANI 1998: 789). In uno Stato così legittimato si riesce a ottenere “la pronta e automatica obbedienza di milioni di uomini agli ordini di pochi” (PELLICANI 1998: 789).
Un terzo fattore di legittimazione del potere è la religione istituzionalizzata, che è simboleggiata dal sacerdote e dal tempio. Basti pensare alle solenni consacrazione dei sovrani da parte del sacerdote e all’interno del tempio, che erano un chiaro messaggio al popolo che quel sovrano era insediato sul trono per volere divino. “Nei chiefdom avanzati e nei primi stati, la più importante giustificazione ideologica delle prerogative regali era l’affermazione della discendenza divina” (HARRIS 2002: 271).
Altri importanti fattori di legittimazione sono la letteratura elogiativa, che si andrà diffondendo nelle corti dopo l’invenzione della scrittura, e l’arte. Grazie ai proventi che derivano dal lavoro dei sudditi, il re non finanzia solo gli strumenti (un esercito permanente e un apparato amministrativo) che gli consentono di imporre la propria volontà, ma si circonda anche di una corte sfarzosa, dove affluiscono adulatori di ogni risma, i più creativi dei quali cominciano a produrre le prime opere letterarie e artistiche, e dove si sviluppa la domanda di generi di consumo raffinati, il cui solo scopo è quello di essere esibiti per stupire.

L’affermazione della città
Col passare del tempo, il massimo centro di potere si va identificando sempre più con la città, per almeno due ragioni: prima, la città è sede del tempio e del palazzo, del sacerdote e del re, dei funzionari e della milizia, degli artigiani e dei mercanti, ossia con le categorie più intraprendenti e potenti; seconda, essendo ben visibile e non potendo fuggire, la città può sopravvivere solo se è ben organizzata e fortificata e ha le risorse umane ed economiche necessarie per resistere ad ogni attacco.
La città offre grandi vantaggi, ma comporta anche grandi problemi, entrambi legati alla disponibilità del surplus. Oltre a costituire una garanzia di sostentamento per l’intera collettività cittadina, il surplus rende possibile la divisione del lavoro, da cui dipendono l’organizzazione sociale, il perfezionamento delle tecniche di produzione, molte invenzioni e scoperte, la crescita culturale, l’arte politica, la nascita del diritto, lo sviluppo del commercio e della letteratura, in una parola, il progresso. Lo stesso surplus, però, nella misura in cui spesso finisce per avvantaggiare solo alcune categorie di persone, ossia il re, il sacerdote e i loro funzionari, rappresenta anche una fonte di ingiustizia sociale, genera malcontenti e attira la bramosia di molti.

Una società disuguale
Come abbiamo osservato, nelle guerre fra tribù, la proprietà privata risultava da un’equa ripartizione delle terre conquistate fra tutte le famiglie dei vincitori, che provvedevano a coltivarle. A parte le donne in età fertile e le bambine, i nemici sconfitti venivano uccisi e, talvolta, cannibalizzati. Non c’erano ancora ricchi e poveri. Ma quando sono le città a muoversi guerra, allora la divisione viene fatta in base allo status sociale delle famiglie, ed è a questo punto che ricchezza e povertà fanno il loro ingresso nella storia, con conseguenze di enorme portata.
La popolazione urbana si caratterizza per la stratificazione sociale e la costituzione di classi. Nella città, per la prima volta, si possono ben distinguere ricchi e poveri. I primi possiedono grandi estensioni di terreno, i secondi nulla. Per gli uni e gli altri si prospettano stili di vita molto diversi. Grazie ai tributi che riscuotono, i ricchi non solo non hanno bisogno di lavorare, ma possono permettersi grandi e confortevoli abitazioni, scorte alimentari, abiti appariscenti, utensili raffinati, armi, vasi di ceramica, guardie armate e perfino letterati e artisti, disposti ad istruire i loro figli, tessere le loro lodi, abbellire le loro case, leggittimare il loro status, fare a gara per superarsi, realizzando opere mai viste e lasciando di sé un ricordo duraturo. È per questo che essi si sentono i veri motori del progresso umano e ritengono di avere una natura superiore a quella degli uomini-massa e più vicina a quella degli dèi. La gente comune, invece, continua ad interpretare il tradizionale modello dell’autarchia familiare e, come sempre, provvede da sé alla propria sussistenza, con la differenza che adesso deve versare una parte dei propri beni tanto al tempio quanto al palazzo e deve dar conto della propria gestione economica sia al sacerdote che al re. I popolani non riescono ad acquistare una terra o una casa, né animali, né i prodotti dell’artigianato o le mercanzie che vengono da lontano. Essi vivono nella più profonda ignoranza e nella paura che qualche banda di predoni li privi di quel poco che hanno e della loro stessa vita. Privi di qualsivoglia educazione, gli individui di basso rango vivono come bruti. Alle masse non è concesso altro che sopravvivere e riprodursi.

L’architettura funeraria
Alcuni ricchi cominciano a pensare al post-mortem. Inizia perciò a diffondersi la pratica della sepoltura, che, coerentemente con la dominante concezione dualistica, che contrappone il dio all’uomo, il ricco al povero, punta a ricongiungere il corpo allo spirito, conseguendo in tal modo l’immortalità della persona. Se i poveri non possono fare di meglio che inumare i propri cari in semplici fosse sotto la nuda terra, i ricchi si fanno seppellire in tombe scavate nella roccia o appositamente costruite con materiale resistente e abbellite con simboli monumentali, come i dolmen e i menhir, che sono espressione di una “società gerarchica” (LOUBOUTIN 1993: 98). Il cadavere del ricco viene posizionato con cura e gli si pongono accanto alimenti e oggetti di vario tipo che, si pensa, possono essergli di una qualche utilità dal momento della rinascita.

Le tradizioni legittimanti
Insomma, la cultura urbana risulta pienamente soddisfacente solo per i pochi fortunati ricchi, che vogliono perpetuare lo status quo, e profondamente deludente per i non possidenti, che sognano una vita diversa. Allo scopo di rendere stabile e legittimata la propria posizione, gli aristocratici rinvangano il passato, traendone leggende, miti, storie di lignaggi e di discendenze divine a proprio favore. Si definiscono e si consolidano così le tradizioni orali, che, tramandate di generazione in generazione e rievocate dagli stessi signori in particolari momenti dell’anno o in particolari circostanze, sostanzialmente raccontano le straordinarie imprese del signore e l’incomparabile saggezza da lui dimostrata in molte occasioni. Così congegnate, le tradizioni svolgono una funzione legittimante, non solo dell’elevato status del signore, ma anche della situazione sociale presente. La maggior parte della gente comune rimane irretita, quasi ipnotizzata, da questi racconti, che, proprio perché vengono incessantemente riproposti nel corso dei decenni, vengono accreditati di un valore quasi sacro. Si introduce così nel mondo il principio, secondo il quale i “miti fondatori consueti invocano, in genere, esseri soprannaturali” (GELLNER 1999: 77). Ciò che afferma la tradizione è verità divina e il rifiuto della tradizione equivale al rifiuto del divino.

Gli emarginati
Alla fine, l’aristocrazia viene accettata dai più e i pochi che non vi si piegano, vengono bollati come soggetti empi, pericolosi e sovversivi e, come tali, vengono perseguiti e uccisi oppure allontanati dalla città quando non sono essi stessi ad andarsene spontaneamente. Sono i disadattati, quelli che non accettano i valori e la cultura dominanti e che vanno ad aggiungersi agli insolventi, a coloro cioè che non sono in grado di pagare i debiti contratti, e ai criminali. In tutti i casi, le sole alternative possibili per costoro sono il ritorno alla vita tribale o una qualche forma di banditismo ed è così che essi diventano i reietti, gli emarginati, i fuoriusciti, una frangia minoritaria della popolazione urbana, che costituisce un fattore di instabilità sociale e che può essere controllata solo con la forza.
Generalmente, gli emarginati mancano dei mezzi, della cultura e del tempo necessari per dare ordine e nerbo alle proprie idee, e non appaiono in grado di organizzare una qualche valida e incisiva azione politica tesa a difendere i propri diritti. Fortuna per costoro che i ricchi non sempre vanno d’accordo tra loro e talvolta si trovano così fortemente impegnati in estenuanti lotte per il potere da contendersi l’appoggio della gente comune, devianti compresi. La città diventa così il luogo per eccellenza dove i ricchi competono per la conquista del prestigio e del potere e dove le masse possono svolgere al massimo il ruolo di spalla di questo o di quell’aristocratico. Ma, quando un aristocratico, desideroso di imporre la propria autorità all’intera città, lusinga le masse con favori e promesse, queste ultime possono acquistare un ruolo politico rilevante, con risultati imprevedibili. Nell’antica Grecia ciò porterà all’affermazione del pensiero politico, alla promulgazione di leggi scritte e alla partecipazione di tutti i cittadini al governo delle poleis.

La scrittura
Una volta che la classe dominante si è insediata stabilmente al potere ed è riuscita a ottenere una legittimazione, se non di tutti, almeno dai clan più importanti, si avverte la necessità di disporre di uno strumento capace di tenere una contabilità dei beni dei signori e dei servitori cui essi sono affidati, di eseguire un censimento della popolazione, di tenere un registro delle raccolte agricole, degli animali d’allevamento, dei tributi riscossi e da riscuotere, ma anche di mettere nero su bianco le nobili tradizioni che fino a quel momento sono state trasmesse oralmente, sì da conferire loro una sorta di immutabile sacralità. Questo strumento è la scrittura. Ne conosciamo tre possibili forme: 1) la forma ideografica (l’oggetto è rappresentato da una figura): essa può richiedere migliaia di simboli grafici; 2) la forma sillabica (ogni segno corrisponde o ad una vocale o ad una consonante più vocale): essa richiede tra 60 e 90 segni; 3) la forma alfabetica (ogni segno una lettera): essa richiede 20-30 segni (GODART 2001: 36).
La scrittura viene inventata nel tempio o nel palazzo ed è utilizzata dal sacerdote o dal re a scopi amministrativi. “La scrittura nasce per esigenze economiche e diventa necessità non appena il patrimonio da gestire sfugge al semplice controllo della memoria umana” (GODART 2001: 179). Un povero non avverte il bisogno di scrivere per tenere memoria delle poche cose che gli appartengono; un ricco sì. È solo dopo l’invenzione della scrittura che i grandi re possono servirsi efficacemente di funzionari in grado di amministrare il loro immenso patrimonio. La scrittura si pone quindi al servizio delle classi dominanti, che hanno la necessità di tenere sotto controllo i propri beni e i propri subordinati: “i primi documenti scritti non avevano altro scopo se non quello di informare i signori dei palazzi sullo stato della loro ricchezza e sui movimenti dei loro sudditi. La funzione primaria della comunicazione scritta è quindi quella di facilitare l’asservimento” (GODART 2001: 130). In definitiva, “La scrittura nasce come strumento atto a favorire lo sfruttamento degli uomini piuttosto che la loro crescita conoscitiva” (GODART 2001: 129).
La prima forma di scrittura è, probabilmente, costituita dal pittogramma, ossia dalla riproduzione pittorica della persona o dell’oggetto che si intende rappresentare. Da qui si giungerà, attraverso un processo di stilizzazione, al segno cuneiforme, ossia ad un simbolo grafico che ormai ha perso ogni somiglianza con l’oggetto rappresentato. Saranno i Fenici a inventare, intorno a 3200 anni fa, un alfabeto composto da poche lettere, tutte consonanti, che semplificherà molto l’arte della scrittura e della lettura. Un ulteriore passo avanti verrà compiuto, intorno ai 2800 anni fa, dai Greci, i quali aggiungeranno all’alfabeto fenicio le vocali, rendendolo così ancora più facile da manipolare, leggere e comprendere.
Agli inizi la pratica della scrittura comporta tutta una serie di rilevanti difficoltà, non solo di tipo tecnico, come quella di scegliere e costruire lo stilo e i supporti adatti ad essere incisi (punteruoli di pietra o metallo, tavolette di argilla o di legno), ma anche e soprattutto di tipo mnemonico ed esecutivo (ricordare centinaia di simboli e saperli riprodurre correttamente). Allo scopo di rendere funzionale la scrittura, di renderla cioè intelligibile almeno in tutto il territorio di un regno, si avverte l’esigenza di codificare i simboli secondo regole rigide e condivise, e da ciò deriva la necessità di creare una «scuola». Alla fine, solo coloro i quali non hanno preoccupazioni per la sussistenza possono permettersi il lungo apprendistato necessario per imparare a scrivere: vengono chiamati scribi. Insomma, la scrittura è un’arte per pochi e può essere praticata solo all’interno di un palazzo reale e in un contesto urbano, dove essa è richiesta, almeno per ragioni contabili e amministrative. La scrittura dunque nasce e si sviluppa nella città.

La civiltà neolitica: tribù o città?
Abbiamo visto come, nel corso del Neolitico, la situazione geopolitica abbia subito profondi cambiamenti, grazie soprattutto all’affermazione della città e alle novità da essa introdotte. La nascita delle città, tuttavia, non segna la scomparsa delle popolazioni tribali, che continuano a vivere allo stato nomade o seminomade, ma apre un confronto fra queste due culture, così diverse fra loro. “Una donna nomade non può permettersi di portare con sé nei suoi spostamenti più di un bambino, oltre alle sue poche cose; non può dare alla luce un altro figlio fintanto che il precedente non è in grado di camminare al passo degli altri membri della tribù. In pratica i cacciatori-raccoglitori controllano le nascite in modo che tra un figlio e l’altro passino all’incirca quattro anni […]. I popoli sedentari, invece, non hanno il problema di dover trasportare i lattanti nel loro girovagare, e possono allevare tutti i bambini che riescono a sfamare. Per molti agricoltori l’intervallo tra due nascite successive si riduce a circa due anni. La natalità più elevata e la capacità di sostentare un maggior numero di uomini per ettaro conducono evidentemente a una densità di popolazione assai più alta” (DIAMOND 1998: 64-5). Nella città si rompe il tradizionale equilibrio fra andamento demografico e risorse naturali e si apre una nuova era di crescita indefinita, sia della popolazione che delle risorse. “Una volta iniziata la vita sedentaria, gli uomini possono fare più figli, la popolazione aumenta ancora e c’è un bisogno di cibo ancor maggiore” (DIAMOND 1998: 83-4). È un circolo vizioso, una continua rincorsa ad un progresso che non prevede fine.
Di norma, città e tribù vivono in condizioni di sostanziale indipendenza e si ignorano, ma, talvolta, le loro strade si incrociano e, in tal caso, i loro rapporti non sono necessariamente pacifici. Abitualmente, le tribù si interessano delle città solo nei periodi di scarsità, allorquando le risorse urbane possono far loro gola, inducendole a sferrare un attacco predatorio. Dal canto loro, le politiche delle città dipendono dalla personalità del re, e il re può o ignorare le tribù oppure tentare di sottometterle, a seconda del momento. In ogni caso, città e tribù rappresentano due diversi modi di interpretare i bisogni dell’individuo e quelli dello Stato, che sono tra loro lontani e inconciliabili.
In linea di massima, una città sorge in prossimità di un fiume, o comunque in vicinanza di una sorgente d’acqua, all’interno di una regione fertile, mentre la patria incontrastata dei nomadi rimane il territorio desertico. Nelle tribù l’unica riserva alimentare è quella custodita nel tempio, che per lo più è di modeste dimensioni e non sufficiente a consentire un’economia e una stratificazione sociale complesse, perciò la maggior parte delle famiglie vivono alla giornata e in modo autarchico, anche se non mancano gesti di solidarietà e di mutuo sostegno, e l’organizzazione sociale è di tipo egualitario. Le città invece possono sussistere solo grazie alla costituzione di un surplus consistente. La tribù non ha mentalità di guerra e di espansione, e non impugna le armi, salvo i casi in cui si senta minacciata da qualche pericolo o pensi sia in gioco la sua stessa sopravvivenza: in simili casi, essa può organizzare un attacco, che di solito assume le sembianze di una scorribanda o una razzia, finalizzata all’accaparramento di risorse di prima necessità, più che alla conquista. La città, invece, proprio in virtù della sua stessa organizzazione, è più adatta a pianificare azioni di pace e di guerra, di difesa e di attacco, a seconda del momento. I cittadini praticano prevalentemente l’agricoltura e rappresentano la modernità, i nomadi la pastorizia e rappresentano la fedeltà alla tradizionale vita di tenda.
I nomadi sono i successori dei cacciatori-raccoglitori. Anche adesso che sono divenuti pastori, ossia proprietari di bestiame addomesticato (pecore e capre), essi continuano a dipendere dalle loro bestie, che custodiscono e curano come le loro stesse persone, le conducono al pascolo, le abbeverano alle sorgenti, le aiutano a partorire, le proteggono dai predatori. I pastori nomadi non avvertono il bisogno di organizzarsi in modo stabile e razionale, non producono alcuna forma di scrittura e ignorano le gerarchie sociali. Di norma, il ruolo di guida è svolto da un anziano, che si ritiene depositario di una sapienza antica e sacra, mentre la vita quotidiana è governata dalla tradizione e sembra rimanere immutabile nel tempo. “Nell’orda tribale non vi è spazio per l’azione indipendente né per la vita privata. L’uomo primitivo è collettivo, e non può fare a meno di essere tale. Il consenso è completo. […] Il costo previsto che consegue dalla violazione delle norme – cioè l’espulsione dal gruppo – è troppo alto” (RADNITZKY 1997: 72-3).
Tanto i pascoli quanto le sorgenti appartengono agli agricoltori ed è con essi che il nomade deve stringere buoni rapporti. Di solito nomadi e contadini si incontrano periodicamente e si scambiano i rispettivi prodotti, ma le loro vite si svolgono in modo assai diverso. Il contadino è legato stabilmente alla propria terra, dove tende a stabilire la propria dimora, e alla vicina città, dove paga le tasse al re, porta le offerte al tempio e scambia i prodotti della campagna con quelli dell’artigianato. Il contadino insomma è un cittadino a tutti gli effetti: è sottoposto alla legge dello Stato, risponde alla chiamata alle armi, accede ai servizi urbani, come strade, case, botteghe, palestre, scuole e quant’altro.
Tanto regolata è la vita del cittadino, tanto indipendente quella del nomade. L’equipaggiamento fondamentale del pastore nomade è costituito da un bastone (o da una clava), e da una fionda con una borsa di pelle colma di pietre. “Per il nomade tutto ciò che non è indispensabile è d’ingombro” (VARDIMAN 1998: 266). È vero, il cittadino lo considera un barbaro, un incivile, un rozzo, una specie di animale, e lo disprezza, ma il nomade è fiero della sua libertà, del fatto che non deve rendere conto a nessuno, che può vivere secondo i ritmi della natura e secondo i bisogni delle greggi, che non deve risiedere in un luogo fisso e non deve accumulare beni. A lui ben si adattano le parole con cui l’oracolo accoglie la nascita di Ismaele: “Egli vivrà come un puledro selvatico, pronto a battersi con tutti, e tutti si batteranno con lui. Resterà separato da tutti i suoi fratelli” (Gen 16,12).
I nomadi non sentono l’esigenza di imparare a scrivere. Tale esigenza, invece, è fortemente sentita all’interno delle città per ragioni organizzative e amministrative. È la necessità di costruire grandi opere (canali, acquedotti, palazzi, templi e fortificazioni) e di riscuotere i tributi, che induce il cittadino a darsi un’adeguata organizzazione e a servirsi della scrittura. La scrittura non si presta ad essere usata solo a scopo amministrativo e contabile, ma anche per fissare racconti, miti e leggende, usanze e leggi, che circolano oralmente da tempi immemorabili. Nascono così i primi testi letterari, che inizialmente vengono accolti come un dono divino e ritenuti sacri. “Disegni e lettere erano carichi di forze magiche” (VARDIMAN 1998: 398).
Col diffondersi dei dominî e delle città, però, i nomadi vedono restringersi i propri spazi di movimento e sono costretti a colonizzare aree sempre più aride e povere di risorse, dove la loro vita si fa sempre più dura e incerta e basta un niente per metterli in crisi. Di norma, quando le risorse non sono sufficienti a sfamare tutti, alcune famiglie o interi clan si allontanano “alla ricerca di nuovo spazio vitale, o facendo sloggiare qualcuno più debole, o mettendosi al servizio di chi era più forte” (VARDIMAN 1998: 46). Se invece si sentono insidiati da nemici esterni, i nomadi sono capaci di unirsi e creare un fronte compatto. “I nomadi sono molto individualisti. Tuttavia stringono alleanza, se qualche cosa li minaccia, ma solo allora” (VARDIMAN 1998: 226). In particolari circostanze, numerosi clan di pastori possono unirsi, accogliere gente senza legge, fuoriusciti dalle città, perseguitati politici, uomini che non hanno nulla da perdere o che sono stanchi di subire, e formare così un vero e proprio esercito, che, se ben guidato da un condottiero, può compiere imprese memorabili.
Quando ciò avviene, valanghe di uomini armati si muovono verso un obiettivo comune e sono capaci di grandi imprese, come la conquista di una grande città, di un regno e, perfino, di un impero. Penetrare in un villaggio fortificato e depredarlo è pericoloso e comporta il rischio di rimetterci la vita, però chi riesca nell’impresa e strappi al nemico un ricco bottino, è considerato un uomo impavido, un leader, un eroe. Anche se, di solito, la memoria dei nomadi non si spinge oltre le due-tre generazioni precedenti, non mancano miti e leggende sulle origini di un clan o sulle gesta di un grande condottiero, che si perdono lontano nel tempo, e non è raro che tali racconti vengono ripetuti da cantastorie.
Può anche accadere che dei rozzi conquistatori nomadi intendano convertirsi alla vita sedentaria. In tal caso, essi dovranno trovare il modo di convivere con la popolazione assoggetta, mantenerla sottomessa e farla lavorare per sé. Per questo dovranno adottare una qualche forma di organizzazione, e quale modo migliore che far proprio il sistema sociale dei vinti? Perso così il loro carattere nomade, i nuovi signori diventano, a loro volta, un possibile obiettivo degli attacchi di altre popolazioni nomadi, che intanto si sono insediate negli stessi territori da loro abbandonati.
Per una città o un regno una sconfitta militare spesso significa la fine di un’epoca, “mentre per i nomadi una sconfitta non scalfisce il sistema complessivo” (TURRI 2003: 203). Infatti, a meno che non venga annientata fino all’ultimo uomo, evento tutt’altro che probabile, una sconfitta militare per una popolazione nomade, che vive dispersa in un grande territorio, può voler dire semplicemente un brusco calo demografico e quindi la possibilità di iniziare un nuovo periodo di crescita, grazie alla maggiore disponibilità di risorse; oppure può voler dire l’integrazione con un’altra tribù. Ma anche se dovesse essere del tutto annientata, la scomparsa di una tribù significa disponibilità di spazio per le tribù confinanti e l’opportunità per una loro espansione.

Il modello urbano
Il principale carattere distintivo della città è costituito dalla divisione del lavoro, che ha, tra le sue conseguenze di maggior rilievo, il progressivo perfezionamento delle singole attività produttive e il miglioramento delle conoscenze e delle tecniche. L’invenzione dell’aratro facilita la lavorazione della terra e consente la coltivazione non solo di orzo e grano, ma anche di farro, avena, segale, miglio, piselli, lenticchie, lino, ulivo, vite e altro. Fra le pratiche a rapida diffusione ricordiamo la macina dei cereali, per ottenerne farina e fare il pane, la spremitura dell’uva, per ricavarne il vino, e delle olive, per produrre olio, l’allevamento, per utilizzare le carni e ogni altra parte dell’animale (non solo le pelli, le corna, le ossa, le setole e le interiora, ma anche la lana e il latte). Inizialmente le famiglie custodiscono le proprie riserve alimentari in apposite buche scavate nel terreno, mentre si servono di otri di pelle per conservare prodotti liquidi, come l’acqua, il latte, il vino e l’olio. Successivamente si inventa il tornio da vasaio e si impara a lavorare l’argilla: opportunamente modellata al tornio e scaldata al sole, l’argilla si trasforma in un bel vaso di ceramica adatto a contenere e trasportare oggetti solidi o liquidi. Grazie all’invenzione dell’ago e del telaio l’uomo impara a tessere la lana e il lino, e le stoffe cominciano a prendere il posto delle pelli.
Tra le invenzioni di questo periodo meritano di essere ricordate la barca, la ruota e il carro. Muoversi su un carro trainato da un bue conferisce almeno due importanti vantaggi. Il primo è la possibilità di percorrere con più rapidità maggiori distanze e di perlustrare meglio il territorio della tribù; il secondo, la possibilità di trasportare una maggiore quantità di cibo e oggetti d’ogni genere. Adesso i rapporti fra i clan possono essere più frequenti e ci si può scambiare beni d’ogni tipo. In particolare, lo scambio di doni costituisce un mezzo per stabilire buoni rapporti fra gruppi estranei, e i buoni rapporti favoriscono lo scambio culturale e lo sviluppo di un linguaggio comune e di un commercio regolare. Viaggiare è comunque generalmente molto rischioso e di solito ci si muove solo in gruppi ben organizzati.
I progressi che si realizzano in talune città sono così evidenti e impressionanti, da fare di esse il modello di riferimento e il centro culturale più avanzato di un’intera regione, la cui superiorità culturale è riconosciuta da molti, e molti hanno piacere di entrare nella loro sfera d’influenza, anche senza esservi costretti con la forza. Non sempre però i cambiamenti introdotti dagli uomini urbanizzati hanno effetti positivi: le guerre, la schiavitù, le disuguaglianze sociali, la povertà, l’ingiustizia costituiscono altrettanti esempi di fattori negativi, che peseranno sul futuro della città e rallenteranno la sua marcia trionfale.
Se la città rappresenta il luogo per eccellenza del surplus e della sedentarietà, dell’organizzazione amministrativa e militare, della divisione del lavoro e della stratificazione sociale, dell’innovazione e del progresso, la tribù è il simbolo della fedeltà alla tradizione, il luogo dove trionfano i valori del nomadismo, che non prevede surplus, né dimore stabili, né capi, né burocrazie, né eserciti, né società stratificate e duali.

I due modelli
Nomadi e contadini, dunque. Si tratta di due ben diversi stili di vita, nessuno dei quali ha solo vantaggi. La realtà è dura tanto per il cittadino che per il pastore, con una differenza: più passa il tempo e più la città si ingrandisce, si organizza e migliora, mentre la vita del pastore non muta col tempo. Alla distanza i vantaggi della città si fanno sempre più consistenti, mentre i pastori devono continuare a fare i conti con una perenne precarietà. Quando sono sotto la morsa della crisi, i pastori non possono fare a meno di scegliere: o abbandonano le loro greggi e tentano un’improbabile integrazione nella città, o si arruolano in qualche esercito, oppure ricorrono alla rapina, attaccano le carovane dei mercanti o le case dei contadini, oppure intimano un tributo agli agricoltori in cambio della loro protezione o della loro neutralità, sperando che la cosa funzioni. Così, piccoli gruppi di pastori si muovono con le loro tende, rapidi e furtivi, e si accampano qui e là, secondo le opportunità, solitamente in luoghi desertici o montagnosi, poco accessibili. È difficile attaccarli, ma è facile essere attaccati da loro.
Le differenze fra i due mondi sono notevoli. Mentre i membri della tribù sono tra loro legati in parte da vincoli di parentela e in parte dalla fede in una comune divinità tutelare, gli abitanti della città sono per lo più estranei fra loro e ciò che li lega è la difesa di un interesse comune. Mentre nella tribù ciascuno provvede per intero alle proprie necessità vitali, nella città ognuno si specializza in un compito e per tutto il resto dipende dagli altri. Mentre nella tribù non c’è stratificazione sociale e ogni gruppo familiare è libero e sovrano, non ci sono apparati burocratici, né guerrieri, né leggi, nella città invece le famiglie si dispongono a piramide, al cui vertice c’è un capo/dio, che è servito da una schiera di burocrati e di guerrieri, seguono, in ordine di importanza, artigiani, contadini e pastori. Mentre nella tribù ognuno pensa per sé e per la propria famiglia, nella città prevale la «ragion di stato» ossia l’interesse del re e delle poche famiglie a lui vicine. Ecco allora che si delineano due stili di vita assai diversi: quella del lavoratore specializzato e sedentario, sia esso agricoltore, artigiano, guerriero, funzionario, sacerdote o altro, che, in qualche modo, è legato alla città, da cui dipende, e quella del pastore nomade, che è legato al mondo tribale e non è soggetto a compiti specifici, né ad ordinamenti gerarchici, e nemmeno alla necessità di costituire e difendere un surplus.
In definitiva, si tratta di due modelli antitetici, l’uno proiettato verso il futuro, l’altro immobile, con lo sguardo rivolto al passato. Tra i pochi elementi che li accomunano c’è famiglia, che rappresenta il nucleo fondamentale di entrambi i mondi, anche se non è la stessa famiglia. La principale differenza sta nel fatto che la famiglia tribale è sostanzialmente autarchica, mentre quella cittadina tende a specializzarsi in un’attività lavorativa e deve scambiare i suoi prodotti per soddisfare i propri bisogni. La famiglia tribale provvede anche al rituale religioso, che rimane circoscritto alla sfera domestica, e alle pratiche funerarie, che sono essenziali e si limitano all’inumazione del defunto in un luogo indeterminato, mentre nelle città i riti religiosi tendono a concentrarsi nel tempio e i morti vengono seppelliti in appositi luoghi e con modalità diverse a seconda del rango del defunto. È probabilmente in ambito urbano che si afferma, per la prima volta, nelle famiglie di più alto ceto sociale, il culto di qualche ragguardevole antenato, il cui cranio, opportunamente ricoperto di argilla, colorato e decorato, in modo da conferirgli caratteristiche fisionomiche e vitali, diventa un perfetto oggetto di venerazione.
A lungo i due modelli di vita coesistono ed entrambi hanno i propri estimatori, anche se non è semplice stabilire se l’uno sia superiore all’altro. Tra i vantaggi maggiormente apprezzati nella tribù c’è l’autarchia delle singole famiglie, la non dipendenza, la libertà di decidere della propria vita e di muoversi a piacimento, la non necessità di dover costituire e difendere un surplus, la quasi assenza di nemici e quindi la rarità di atti di violenza e di conflitti armati. La città invece viene apprezzata per il maggior confort e la maggiore protezione che offrono le case in muratura e le fortificazioni urbane, la possibilità di attingere a riserve alimentari nei periodi di scarsità, il senso di sicurezza conferito dall’esistenza di un esercito permanente, il senso di ordine e di giustizia che può dare un apparato burocratico efficiente e, infine, il senso di superiorità che scaturisce dalla divisione del lavoro e dall’incessante perfezionamento delle tecniche. Di norma fra i due ambiti non c’è stima: il contadino disprezza il pastore, perché è rozzo e incivile, il pastore compatisce il contadino, perché ha rinunciato alla propria libertà e si è sottomesso ad altri.
Convivendo nello stesso territorio, sedentari e nomadi non possono ignorarsi, ed ecco allora che possiamo vederli scambiarsi beni, cooperare oppure scontrarsi con violenza. “Nella realtà storica le società nomadi hanno continuamente dialogato con i sedentari, in altri momenti sono entrate in conflitto tra loro, soprattutto là dove lo spazio e le risorse a un certo punto diventavano insufficienti” (TURRI 2003: 95). Di norma è il nomade che, essendo maggiormente esposto agli imprevisti, spinto dalla necessità, prende l’iniziativa e piomba in un villaggio, dove sa che c’è sempre qualcosa da razziare. Il nomade ha poco da perdere, a parte la propria vita, ma, se ha coraggio, se è furbo, furtivo e determinato, e se la fortuna lo assiste, può saccheggiare il surplus del sedentario e dileguarsi. Non mancano scambi umani tra i due mondi: da una parte ci sono cittadini che, mal sopportando i rigidi schemi sociali e gli obblighi gerarchici, fuggono dalla città e abbracciano il nomadismo; dall’altra parte ci sono pastori che si lasciano sedurre dalla lusinghe della vita urbana.
Per millenni i due modelli continuano a confrontarsi in condizione di sostanziale equilibrio, ma, ad un certo punto, quest’equilibrio comincia, inesorabilmente, a spostarsi a favore della città, a mano a mano che l’evoluzione culturale prende il posto di quella naturale. La tribù rappresenta una condizione di massimo equilibrio tra fattori biologici e culturali e costituisce un modello, che è giunto all’apice del suo sviluppo, non è ulteriormente perfettibile, a meno di cambiarlo radicalmente, in una parola, è statico. La società cittadina, invece, è un sistema giovane, fondato su valori prevalentemente culturali, dove, poiché ogni lavoratore ha interesse a migliorare il proprio stato e a rendere più funzionale e redditizia la propria attività, si realizzano le condizioni di un progresso inarrestabile. Nella città i costruttori edili affinano la loro arte e imparano a progettare non solo abitazioni in muratura, ma anche strade, ponti, canali e acquedotti; i mercanti inventano la bardatura del cavallo, che facilitita la cavalcatura e il trasporto delle merci, altri inventano la vela, che rende più veloce lo spostamento con la barca, la ruota e il carro, che facilitano e velocizzano il trasporto delle merci, creando così le premesse per la diffusione del commercio e la pratica di un’economia mista. È solo nelle campagne controllate dalla città che si impara a realizzare elaborati sistemi di irrigazione e a praticare la rotazione delle culture, con notevole incremento della produttività; ed è ancora nella città che si sviluppa l’astronomia e si inventerà il calendario e, soprattutto, la scrittura.
Per molto tempo le tribù rimangono ferme sulle proprie posizioni e fedeli ai propri valori, mentre le città continuano ad esprimere innovazioni e cambiamenti di ogni tipo, ma con risultati altalenanti. Bisognerà aspettare l’età del ferro per assistere alla definitiva affermazione della città e al malinconico declino della tribù.

La debole organizzazione sociale dei nomadi
Seppure scarsamente strutturato rispetto a quello della città, il potere politico è noto anche alle tribù nomadi, dove trova la sua principale incarnazione nelle figure del patriarca, del giudice e del condottiero, di cui facciamo un breve cenno qui di seguito, prendendo spunto dalla preziosa testimonianza che ce ne offre la Bibbia.
Designato fra i più anziani della tribù e prescelto per le sue doti di equilibrio, saggezza e diplomazia, il patriarca è considerato da tutti il depositario di una saggezza ancestrale, oltre che il più profondo conoscitore degli antenati, delle tradizioni, delle origini e del destino della tribù. Per tutti, il patriarca è il punto di riferimento e una guida sicura in tempi di pace. È lui che compone le discordie interne e gestisce i rapporti con le altre tribù, è lui che stabilisce cosa sia meglio per il gruppo e prende le decisioni più importanti, ed è ancora lui che interpreta gli eventi e definisce il significato della vita e della morte. Il patriarca è essenzialmente un leader pacifico, particolarmente adeguato per piccoli gruppi clanici o tribali, più o meno strettamente imparentati e uniti da interessi comuni, ma poco adatto a guidare gruppi più grandi e compositi, come una grossa tribù o un dominio, dove i legami parentali sono diradati e la divisione del lavoro ha diversificato gli interessi e generato una elevata competizione tra le famiglie.
Quando la saggezza e la moderazione del patriarca non bastano, si comincia ad avvertire l’esigenza di un codice di norme, sia pure di tipo informale e consuetudinario, e di qualcuno capace di farlo rispettare, insomma di una persona esperta e competente, dotata di qualità tecniche, più che di virtù morali, e capace di concepire e imporre soluzioni di compromesso accettabili dalle diverse parti sociali. Si afferma così la figura del giudice. Alcuni giudici si dimostrano così abili nel dirimere le controversie e mantenere la pace sociale che di loro si continuerà a parlare per molto tempo, anche al di là del rispettivo villaggio di residenza, e verranno additati alle future generazioni come modelli di virtù, da imitare.
Anche il giudice, come il patriarca, costituisce un punto di riferimento sicuro e un leader valido in tempi di pace, ma è poco adatto a far fronte ai pericoli che vengono dall’esterno, come l’attacco da parte di nemici armati in massa. In questi casi, più che di un uomo di giustizia, si sente il bisogno di un uomo forte e capace non solo di raccogliere la fiducia della gente, di farsi ubbidire e prendere decisioni cruciali in poco tempo, ma anche di organizzare e guidare un esercito verso la vittoria; insomma di un condottiero. Il più delle volte, il condottiero è un personaggio scelto a prescindere dalle sue qualità morali e dal suo senso di giustizia, quanto piuttosto per le sue doti di intelligenza, rapidità decisionale e coraggio. Talvolta, però, è lo stesso giudice che rivela queste qualità e si impone come il candidato più autorevole per ricoprire il ruolo di condottiero. Della figura del giudice-condottiero parla la Bibbia, mentre Erodoto (I, 96-98) descrive il modo in cui un giudice può trasformarsi in capo politico: è il caso di un certo Deioce, vissuto ai tempi in cui “i Medi vivevano sparsi in villaggi”.
Deioce, avendo compreso che tutto il potere era ormai deferito a lui, non voleva più sedere ove prima sedeva per amministrare la giustizia e disse che non avrebbe più giudicato, perché non gli conveniva render giustizia per tutto il giorno agli altri trascurando i suoi propri interessi. [...] E subito, consultandosi essi su chi avrebbero eletto re, Deioce veniva proposto e lodato da ognuno, finché decidono che egli sia loro re.


L’affermazione della monarchia e lento declino del nomadismo
Solitamente, nel momento in cui cessa la situazione di pericolo, il condottiero tende ad uscire di scena e si ritorna alla situazione precedente, ma può anche accadere che, per il concorrere di circostanze favorevoli, un condottiero conservi il potere anche in tempi di pace. Si instaura così quella forma di governo, chiamata monarchia, che avrà una grande fortuna negli anni a venire e che, nel Neolitico, tende ad assumere le sembianze della città-stato. La principale caratteristica del monarca è quella di esercitare un potere sui sudditi, non importa se di tipo assoluto o limitato, ma legittimo e sostenuto dalla forza delle armi, in ossequio al principio, secondo il quale “il potere politico è tale solo se chi lo esercita dispone di adeguati mezzi di coercizione” (PELLICANI 1998: 786). Disponendo di un’adeguata forza militare e di un valido apparato burocratico, composto di funzionari di fiducia, capaci di far rispettare la sua volontà e di gestire la macchina amministrativa dello Stato, il re può esercitare il suo potere, che spesso gli consente di decidere della vita o della morte dei propri sudditi e, benché questo potere origini, in ultima istanza, dalla forza, tuttavia, in molti casi, esso viene gestito con azioni di tipo «politico», per esempio, con minacce, lusinghe e donazioni. “La superiorità che si fonda sulla violenza delle armi può essere trasformata in situazioni durevoli di potere. Innanzitutto con la minaccia permanente dell’impiego della violenza e con promesse di risparmiare e proteggere gli ubbidienti; successivamente con la distribuzione e la negazione di beni scarsi di ogni tipo” (POPITZ 1990: 109). In ogni caso, le decisioni politiche rispecchiano prevalentemente la volontà del re e di pochi altri signori, piuttosto che princìpi di giustizia sociale. [E così continuerà ad essere, tranne poche eccezioni, per molto tempo ancora. Sarà solo a partire dall’Illuminismo che dal popolo si leverà una richiesta di giustizia.]

L’invenzione della scrittura e l’ingresso nella storia delle civiltà
Con le città-stato si creano le condizioni favorevoli all’invenzione della scrittura e si entra nella storia. Nel mondo animale quando un individuo muore, tutto ciò che egli ha appreso, le sue esperienze, le sue acquisizioni muoiono con lui o, al massimo, coi suoi figli. Al contrario, l’uomo alfabetizzato può tradurre le sue idee in parole scritte, che possono essere conservate e lette anche in luoghi e in tempi molto distanti. La cultura simbolica, mediata dalla scrittura, realizza una sorta di miracolo. Essa, infatti, consentendo ad ogni generazione di proseguire dal punto in cui è giunta la generazione precedente, crea le condizioni per una crescita culturale illimitata. Grazie alla scrittura e alla tecnologia, in particolare quella relativa alla lavorazione dei metalli, alcune popolazioni riusciranno a superare i limiti naturali e a camminare con le proprie gambe.
Quando, dopo essersi imposta militarmente, una città riesce ad esprimersi culturalmente ad un livello, che viene riconosciuto superiore sia dalle città sottomesse sia da altre città, quando ciò avviene possiamo parlare di civiltà. In sostanza, “Con la nascita dello Stato inizia la storia delle civiltà, ossia la storia delle società autocefale e fortemente gerarchizzate, nelle quali la vita sociale è sottoposta al controllo di una minoranza organizzata che detiene il monopolio della violenza e che ha esonerato se stessa da ogni lavoro produttivo” (PELLICANI 1998b: 787). Nel contesto di una civiltà, la città dominante non è semplicemente vista come punto di riferimento e modello da imitare, ma anche come possibile ambita preda per qualche potente nemico, che, se è sufficientemente forte, può abbattere quella città, insieme alla sua civiltà, dando inizio ad un nuovo ciclo. A partire dal Neolitico, la storia degli uomini sarà caratterizzata da questo continuo avvicendarsi di diversi gruppi al vertice del potere politico, militare, economico e culturale.