Il passato, tutto il passato è dentro di noi, in ogni nostra cellula. Sulla conoscenza del passato dobbiamo costruire il futuro (Emmanuel Anati).
1. Introduzione
“L’uomo che studia se stesso è di fronte alla sfida più impegnativa e forse anche quella più importante, decisiva per il suo presente e il suo futuro di dominatore del pianeta” (MANZI 2006: 16). Già ardua se ci limitiamo allo studio degli eventi che hanno fatto seguito all’invenzione della scrittura, l’impresa si prospetta tanto più proibitiva quanto più osiamo spingersi a ritroso nel tempo e rasenta l’impossibile se si parte dai nostri più antichi progenitori che, secondo gli studiosi, sono gli australopitechi, vissuti intorno a 4 milioni di anni fa. Attraverso quali tappe l’australopiteco è giunto fino a noi? Lo sforzo di far luce nel buio della preistoria umana, di squarciare quel velo di mistero che la circonda, se da un lato può apparire pretenzioso, dall’altro è l’unico modo per comprendere il nostro presente e prevedere la direzione del nostro futuro. La posta in gioco è tale che, per quanto temeraria possa sembrare, è una sfida che dobbiamo accettare.
Cos’è possibile sapere della preistoria? Dal momento che ignoriamo luoghi, nomi e date, le nostre conoscenze sono purtroppo assai limitate e grossolane, e ciò ha indotto i più a gettare la spugna: «se non abbiamo strumenti certi di conoscenza, è meglio procedere come se la preistoria non esistesse». Abbandonare la preistoria dunque e far finta di nulla? A mio parere non è questo il comportamento migliore, perché rinunciare alla conoscenza della preistoria equivale a precludersi un’adeguata comprensione della storia. In realtà, questa rinuncia è ingiustificata. Infatti, per quanto limitate e imperfette possano essere le nostre conoscenze della preistoria, esse costituiscono uno strumento prezioso e insostituibile per comprendere il presente. Non importa se la nostra ricostruzione dei fatti sarà incerta o se la probabilità di errore dovesse sfiorare il 99%: meglio una probabilità su cento di centrare la verità che il buio totale. E poi, in quale campo l’uomo può dirsi in grado di possedere la verità al cento per cento? In nessuno, perché egli si muove nell’ambito dell’opinabile e del relativo, e, per conseguenza, gli è interdetto l’accesso alla verità assoluta. L’uomo può solo conoscere la verità migliore in rapporto alle informazioni disponibili, e di questo si deve accontentare.
Il fatto, dunque, che le nostre conoscenze sulla preistoria sono scarse non significa né che sono nulle, né che sono irrilevanti, né che sono un puro frutto d’immaginazione. Disponiamo, infatti, di reperti fossili, scheletri, pietre lavorate, strumenti, suppellettili, vasi, sculture, pitture, luoghi di sepoltura, resti di accampamenti, costruzioni e armi; sappiamo che proveniamo da forme di vita e di società più semplici, che non dovevano essere molto diverse da quelle di popolazioni primitive esistenti; conosciamo infine il punto di arrivo, cioè gli uomini e le società di oggi. Avendo chiaro il punto di partenza e quello di arrivo e usando le nostre conoscenze nel campo dell’archeologia, dell’etnologia, della paleoantropologia, dell’etologia, della sociologia e della psicologia, possiamo tentare di ripercorrere le tappe del nostro cammino con una qualche attendibilità e senza il rischio di creare un racconto irreale e fuorviante. La mia opinione è che la preistoria possa essere adeguatamente conosciuta, almeno per quel tanto che serve ad illuminare la storia, allo stesso modo in cui la debole luce di una candela basta a rischiarare il buoi pesto di una stanza.
Cos’è successo negli ultimi cinque milioni di anni? Come vivevano i primi ominidi e attraverso quali tappe si è giunti all’affermazione del sapiens? Come, quando e perché si è affermata la famiglia o si è passati da società piccole ed egualitarie, come le bande, i clan e le tribù, a società sempre più numerose, complesse, stratificate e gerarchizzate, come quelle di villaggi, città, stati, civiltà e imperi? Come, quando e perché si sono affermati la religione, l’arte, il potere (politico, economico e militare), le leggi e la scrittura? A questi interrogativi cercheremo di dare una risposta nelle pagine di questo libro, nella convinzione che ciò possa aiutarci a comprendere meglio noi stessi e le ragioni delle nostre politiche vigenti, ma, soprattutto, per preparare il terreno all’ideologia DD, che mi prefiggo di approfondire in un’apposita opera dedicata.
Le prime forme di vita hanno per protagonista l’«individuo puro e semplice», ovverosia l’animale solitario, che non riceve cure parentali, provvede da sé ai propri bisogni e non ha amici, né parenti, né sodali, ma pensa solo a se stesso e si occupa dei propri interessi, senza altre preoccupazioni. Il suo comportamento è rigidamente regolato dall’istinto ed è finalizzato alla conservazione e alla riproduzione di sé: niente famiglia, niente gruppo, niente società, niente proprietà privata, niente potere, niente politica, ma solo individui, con la forza dei propri istinti e del proprio corpo, soli in un ambiente insidioso, dove ogni istante potrebbe essere l’ultimo. La sopravvivenza dell’individuo puro e semplice è affidata alle sue pulsioni egoistiche e alle sue capacità di dare soddisfazione ai propri bisogni. Per raggiungere questo scopo, il soggetto deve profondere tutte le proprie energie in un mondo dove impera la legge del più forte, ma, per quanto forte esso sia, un individuo non è mai sicuro di farcela e la sua vita è sempre a rischio. L’individuo isolato vive momento per momento e senza alcuna certezza. Il pericolo è sempre in agguato e basta un niente per condannarlo a sicura morte: un incidente, un incendio, un’alluvione, una siccità, un predatore. La sorte di ciascuno è appesa ad un esile filo, che si può spezzare da un momento all’altro. Ciò spiega perché la vita media è sorprendentemente breve: la maggior parte di questi animali muoiono nei primi giorni di vita e solo pochi raggiungono l’età adulta e si riproducono. L’intero corso delle vicende inerenti lo sviluppo della vita e delle società umane è avvenuto sotto il controllo di due superne leggi: la legge di Malthus, che riguarda l’equilibrio fra demografia e disponibilità di risorse, e la legge del più forte.
La famiglia
L’affermazione della famiglia segna un momento di svolta nell’evoluzione della vita, che è caratterizzato dalla comparsa dell’individuo sociale, il quale vive in gruppo e dipende da altri. Questa realtà è ben rappresentata nel mondo dei mammiferi, dove troviamo anche la linbea filogenetica della specie umana. La famiglia è una sorta di miracolo della natura, che prima si serve dell’impulso sessuale per unire la coppia e indurla a proliferare, poi si affida al bambino che, con le sue sembianze, i suoi comportamenti, le sue movenze, i suoi suoni, non solo riesce a inibire la violenza aggressiva dei genitori nei suoi confronti, ma anche li stimola a prendersi cura di lui. La cosa sorprendente è che, mentre nutre e protegge i suoi piccoli, un genitore prova più soddisfazione che fatica, più gioia che dolore. È l’effetto degli ormoni, ai quali è legata, in definitiva, la sopravvivenza della prole: in cambio del piacere che ricevono, i genitori si adoperano per dare ai propri figli tutto ciò che serve a soddisfare i loro bisogni. Questa magica armonia si spezza nel momento in cui il piccolo diviene adulto. Da quel momento, infatti, egli viene visto come un estraneo ed è costretto ad allontanarsi, a badare a se stesso, a cercare un territorio e un partner col quale formare una nuova famiglia. E il ciclo ricomincia.
La famiglia non si può spiegare se non come strumento di sopravvivenza dei piccoli, i quali si servono della cooperazione dei genitori per soddisfare meglio i propri bisogni. Ora, secondo una legge suprema della natura, ogni individuo deve pensare prima di tutto a se stesso. Non è possibile, unfatti, aiutare altri a soddisfare i loro bisogni, se prima non si è provveduto a soddisfare i bisogni propri. Questo principio vale anche nel rapporto genitori-figli, in quanto è evidente che un genitore denutrito non è in grado di nutrire adeguatamente la prole, né un genitore incapace di difendere se stesso può essere in grado di difendere i propri piccoli. Il genitore, dunque, se vuole svolgere in modo efficare la sua funzione di riproduttore della specie, deve fare di tutto per mantenersi nella migliore forma possibile e, solo a queste condizioni, egli può essere di reale aiuto per i suoi figli. Lo stesso principio si applica anche nel rapporto tra fratelli, sebbene in misura molto minore. Di norma, infatti, i fratelli non si prendono cura l’uno dell’altro, ma anzi, il più delle volte, si trovano a competere per l’accesso alle medesime risorse.
L’incerto equilibrio fra demografia e risorse
Come tutte le specie sociali, l’ominide non si comporta da individuo isolato che combatte contro tutto e contro tutti, ma da membro di un gruppo familiare, dove gli istinti egoistici possono sublimarsi fino a sfociare nell’altruismo. Se estrapoliamo l’altruismo parentale, non rimane che l’egoismo individuale, una sorta di legge naturale, secondo la quale ogni individuo si muove sotto la spinta dei propri interessi in un mondo dominato dalla legge del più forte, e sopravvivono solo i più fortunati fra coloro che dispongono delle qualità fisiche e comportamentali migliori. Ora, mentre le qualità fisiche vengono ereditate e sono indipendenti dalla volontà del singolo, i comportamenti sono prevalentemente appresi e dipendono, oltre che dalle circostanze occasionali, anche dall’intelligenza e dalla volontà del singolo soggetto. In altri termini, la sopravvivenza individuale dipende dalla combinazione di più fattori, alcuni dei quali sono naturali, altri culturali e altri ancora casuali. La famiglia fa parte dei fattori naturali. Essa prevede che i piccoli ricevano attenzioni e cure da parte dei genitori fino al raggiungimento dell’età adulta, allorché non vengono più riconosciuti come figli, o perlomeno non vengono più nutriti e accuditi e devono imparare a badare a se stessi, a cercare un compagno e a riprodursi contando solo sulle proprie forze.
Se le risorse naturali fossero illimitate, gli individui non avrebbero ragione alcuna di entrare in competizione e potrebbero tranquillamente continuare a vivere in modo isolato o in piccoli gruppi familiari. Purtroppo così non è. Le risorse sono limitate e disponibili in modo incostante: di norma avviene che periodi di abbondanza si alternano a periodi di scarsità, e questa alternanza si ripercuote sull’andamento demografico. La regola è semplice: quando c’è abbondanza, la competizione è minima e la popolazione cresce; quando c’è scarsità, la competizione aumenta e la popolazione diminuisce. La scarsità può essere ricondotta sia alle lente variazioni climatiche, come le glaciazioni, sia ad eventi improvvisi, come un’eruzione vulcanica, un’alluvione, un’inondazione, un incendio, una frana, una siccità, una gelata, un forte vento, una grandinata, o altro, sia antropiche, come un aumento eccessivo della popolazione. Indipendemente dalla disponibilità delle risorse, l’incremento demografico, oltre un certo limite, costituisce di per sé un fattore tanto di scarsità quanto di ipercompetitività. In caso di scarsità, gli animali maggiormente specializzati hanno minori probabilità di sopravvivere rispetto agli eclettici. Così, un animale capace di muoversi solo fra gli alberi o di mangiare solo certe foglie perirà se mancano gli alberi e quel tipo di foglie. Lo stesso avviene quando cambiano i fattori climatici, nel qual caso un animale, che è capace di vivere solo entro ristretti limiti di temperatura, soleggiamento, pressione atmosferica o umidità, corre il maggiore rischio di estinzione.
Lo sviluppo sociale dell’ominide
Chi si adatta più facilmente ha maggiori probabilità di farcela. L’ominide è fra questi. Ma c’è il rovescio della medaglia. Adattabilità, infatti, non si concilia con eccellenza, e l’ominide è tanto versatile ed opportunista a livello sociale quanto fragile e mediocre nelle singole qualità individuali. In nulla, infatti, egli non è superiore agli altri animali, né nella forza fisica, né nell’acutezza dei sensi, né nell’intelligenza, né nella prolificità, né in alcun altro campo singolarmente preso. L’ominide è un animale fra gli altri e le sue qualità complessive sono appena sufficienti a consentirgli la sopravvivenza, non certo a farne il signore incontrastato del pianeta. Per surclassare gli altri animali non gli basta l’adattabilità e nemmeno l’intelligenza, ma gli occorrono anche la spiccata socialità, il linguaggio simbolico e la capacità di superare i limiti della famiglia e creare gruppi solidali sempre più estesi.
La società di banda
In un primo momento, l’ominide può contare solo sulla famiglia, ma ben presto impara a stabilire saldi e duraturi rapporti parentali anche coi propri figli diventati adulti, e perfino con nipoti, fratelli e cugini, ed è su queste basi che si costituisce la società di banda, che è una sorta di famiglia estesa, nella quale l’individuo può contare sull’aiuto di persone diverse dai genitori, e non solo limitatamente al periodo infantile, ma per tutta la durata della propria esistenza, il che conferisce ai singoli membri degli indubbi vantaggi in termini di sopravvivenza e spiega la diffusione di questa nuova società in tutto il pianeta. Il punto debole della società di banda è che la sua coesione richiede un certo contributo attivo dei singoli membri e, in situazioni particolarmente avverse, tali da determinare il prevalere degli impulsi egoistici degli individui membri, essa tende a disgregarsi. Ed è qui che entra in gioco l’intelligenza. Essa farà comprendere all’ominide che, se vorrà conservare i vantaggi del gruppo, dovrà esercitare il suo spirito di adattamento, di condivisione, di rinuncia, di solidarietà, di cooperazione e di altruismo. Ma queste conquiste richiederanno tempo.
Se le qualità dell’ominide sono tali da dare origine alla società di banda, a sua volta, la società di banda è tale da indurre l’ominide a cambiare se stesso. I principali cambiamenti riguardano lo sviluppo del linguaggio e della socialità, ma non si tratta ancora di cambiamenti epocali o rivoluzionari. Per il linguaggio basta quel tanto da consentire un’efficace comunicazione fra soggetti apparentati, che si conoscono fin dalla nascita e che vivono a stretto contatto. Un po’ più impegnativo è l’apprendimento di moduli comportamentali idonei a tenere saldo il gruppo onde evitarne la frantumazione. Il fatto è che la nuova vita di gruppo non ha cancellato la natura dell’individuo, non ha eliminato i suoi bisogni primari, il suo egoismo e la sua innata voglia di mettere i propri interessi al primo posto. La socialità non ha annullato l’individualità e la coesione del gruppo poggia sull’intelligenza dell’ominide e sulla sua volontà di preservare a tutti i costi la compattezza del collettivo, da cui deriva per lui un vantaggio irrinunciabile.
La società di clan
Quando la banda non è più competitiva, l’ominide crea le prime società di clan, che sono più ampie e complesse delle precedenti, anche se sono ancora fondate sul legame di sangue. In pratica il clan rappresenta il massimo livello possibile di organizzazione sociale su base parentale. All’interno del clan ogni individuo vive come in una grande famiglia e mette il proprio talento a disposizione della collettività, pago della gratitudine dei suoi simili e certo di essere ricambiato in caso di necessità. Nel clan tutti sono uguali, tutti parenti, ciascuno fa quello che può e solo questo gli viene richiesto. Chi si trova in difficoltà può contare sulla solidarietà del gruppo. Di norma non si avverte la necessità di un capo e, anche quando si guarda a qualcuno (generalmente il più anziano) come punto di riferimento, non gli si attribuiscono maggiori poteri o uno status sociale superiore. La stratificazione sociale è sconosciuta e, non essendosi ancora affermata la consuetudine di accumulare, si ignora anche l’idea di proprietà privata. Si consuma quanto serve anche quando la natura produce in abbondanza e, in caso di scarsità, anche al membro più debole del gruppo viene riconosciuta la sua parte; tutti soffrono insieme in attesa di tempi migliori. La società clanica consente all’ominide di accrescersi, ma, oltre un certo limite, le crisi di scarsità divengono più frequenti e il livello di competizione aumenta a tal punto da far desiderare una società migliore.
Dalla società tribale alla città
Ancora una volta il Sapiens ricorre con successo alla sua intelligenza e inventa un nuovo tipo di società, che non è più basata esclusivamente su legami di sangue, ma anche su legami simbolici e culturali. Da questo momento l’uomo acquista la capacità di riconoscere, come suo affine, uno che abita nello stesso territorio, parla la stessa lingua e crede nello stesso dio, anche se è un estraneo, e, grazie a questo nuovo legame, possono costituirsi le prime tribù e sorgere i primi villaggi. La società tribale conferisce all’uomo maggior forza e gli consente di superare le sfide del momento, almeno fino a quando, ancora una volta, dopo un ulteriore periodo di crescita demografica, si riaffaccia lo spettro della scarsità e la competizione si riaccende, suscitando l’esigenza di migliorare ulteriormente il grado di efficienza della società e di sfruttamento del territorio. Nascono così i primi dominî e le prime città, dove si determinano le condizioni favorevoli all’invenzione della scrittura e alla creazione delle prime forme di governo in senso moderno, con tanto di istituzioni politiche, apparati burocratici, giudiziari, militari, e codici di leggi.
Le due supreme leggi: Malthus e principio di forza
Fin qui la legge del più forte e la legge di Malthus si sono tenuti fra loro in equilibrio. In particolare, il principio di forza è stato temperato dal principio parentale e l’accomodamento dell’aumento demografico alle risorse naturali ha trovato una risposta nell’ampliamento del gruppo, che è passato dalla famiglia alla tribù e ad un sempre migliore sfruttamento del territorio. La situazione cambia con la diffusione dei villaggi e delle città, dove ogni comunità deve provvedere alla distribuzione delle risorse con regole proprie. Di norma, si tende a rimanere nel luogo dove si è nati e dove è insediata la propria tribù, a meno che la situazione si faccia tanto difficile da indurre qualcuno a tentare nuove vie. Come osserva Malthus, “poche persone saranno disposte a lasciare le proprie famiglia, le conoscenze, gli amici e la terra natale per cercare di stabilirsi in un paese straniero, se non per la spinta di cause di grave disagio nella terra in cui abitano, o per la speranza di ottenere qualche grande vantaggio nel luogo in cui sono dirette” (1977: 18). Prima però di prendere in considerazione un simile passo, abitualmente, le persone provano a risolvere i loro problemi sul posto e lo fanno difendendo i propri beni dai malintenzionati oppure sottraendo beni ad altri, in altri termini, aumentando la competitività interna e la tendenza a procurarsi le necessarie risorse per la sussistenza anche a discapito di altri. Da questo momento, e sempre di più, ognuno dovrà fare i conti col principio di forza e nessuno potrà essere sicuro di nulla. Per porre fine a questo stato di insicurezza estrema, gli uomini non sapranno far altro che attribuire un potere arbitrario ad una figura di capo e “sottomettersi ad ogni grado di tirannia, oppressione e crudeltà esercitato da una singola persona e dal suo seguito, pur di non essere alla mercé del primo uomo più forte che può volere impossessarsi del frutto del loro lavoro” (MALTHUS 1998: 94). A questo punto abbiamo creato le premesse per la nascita dello Stato e l’inizio della storia, ma a noi qui interessa la preistoria: essa copre propria quel lungo periodo che va da quando l’uomo viveva in gruppi familiari a quando ha fondato lo Stato.
I protagonisti della preistoria
Certamente il processo di transizione dalla famiglia alla banda, dalla banda al clan dal clan alla tribù e dalla tribù alla città ha avuto i suoi protagonisti, che però noi ignoriamo, perché appartengono alla preistoria. Ignoriamo i loro nomi e le loro specifiche imprese, ma sappiamo quel che hanno fatto, e perfino come e perché lo hanno fatto. È sufficiente partire dallo stato attuale delle nostre conoscenze. Sappiamo innanzitutto che, in condizioni di scarsità, i bisogni inducono gli uomini a competere per nutrirsi e riprodursi. Sappiamo anche che solo alcuni riescono a lasciare tracce di vario tipo, che poi serviranno ai paleontologi per scrivere la preistoria: sono i protagonisti, i vincenti, i più forti, i migliori, o in qualsiasi altro modo li vogliamo chiamare. Sappiamo, infine, che questi primi protagonisti sono uomini come noi, che, per una serie di circostanze, legate in parte alle proprie qualità personali (intelligenza, opportunismo, coraggio, carisma, mancanza di scrupoli, ottimismo, elevata autostima, temerarietà), in parte ad eventi fortuiti e occasionali (buona sorte), in parte alla coesione del gruppo (religione), in parte all’organizzazione (leaderismo), in parte legate al sapiente sfruttamento delle risorse umane (tecniche agricole e militari, di comunicazione e trasporto), riescono ad imporsi sul proprio e su altri gruppi. Questi leader ignoti combattono innanzitutto per il possesso della terra, la quale, da quando l’uomo ha imparato la tecnica di coltivazione, ha acquistato valore primario e viene considerata alla stregua di una proprietà privata di un clan o di una tribù.
Nomadi e sedentari
Ma non tutte le comunità coltivano la terra: alcune rimangono fedeli alla lunga tradizione della caccia-raccolta e continuano a muoversi al seguito delle mandrie. Sono i nomadi. Se vengono attaccati, essi, di solito, scappano, perché non sono legati al suolo che calpestano. I contadini, invece, devono difendere la loro terra dalle incursioni di bande armate, perché è la «loro» terra. È solo dopo la scoperta dell’agricoltura che l’opzione delle armi rappresenta una necessità. Da questo momento, le alternative possibili sono due: o la vita stanziale, a rischio di guerra, o la vita «pacifica» del nomade. È il periodo propizio per l’affermazione della banda armata. Un gruppo ben organizzato di poche decine di uomini armati, fermamente intenzionati a procurarsi risorse con attività che oggi definiremmo criminose (razzie, saccheggi, estorsioni), chiamiamoli pure briganti, possono procurarsi maggiori risorse e con minore fatica, rispetto al contadino e al pastore, a condizione di correre qualche rischio: il rischio di essere biasimati all’interno del proprio clan, di essere feriti o uccisi, o di dover vivere alla macchia. Non di rado, però, i singoli banditi si rendono benemeriti nei confronti del proprio clan, all’interno del quale possono essere rispettati e onorati come eroi, e lo stesso avviene per la banda intera, che può ricevere piena legittimazione, ingrandirsi e insediarsi stabilmente in un villaggio, da dove può controllare le famiglie degli agricoltori, che possono essere sottoposti a tributo, in cambio di protezione. Se ci cederete una parte dei vostri prodotti, dicono i briganti ai contadini e ai pastori, noi non solo non vi daremo fastidio, ma vi proteggeremo da eventuali aggressioni esterne. Si creano così i presupposti per la fondazione dei primi villaggi fortificati o dominî.
Un incremento demografico o un calo di risorse può indurre il capo di un dominio ad attaccare i vicini villaggi, per depredarli o sottometterli e, in caso di vittoria, il dominio può ingrandirsi e fortificarsi a tal punto da diventare una città e il suo signore un re. Sorgono così le prime città-stato e le prime monarchie, capaci di controllare un vasto territorio circostante, anche se i problemi non mancano. Infatti, se è facile mantenere in stato di sottomissione gli agricoltori, lo stesso non vale per i pastori nomadi, i quali vivono di caccia e raccolta, oltre che dei prodotti dei loro greggi, che però non sempre bastano e devono essere integrati con razzie a danno dei contadini e, a volte, anche delle città. Arrivano all’improvviso, depredano, uccidono e sembrano dileguarsi: in pratica, si rifugiano in zone semidesertiche o montagnose, dove gli eserciti sono impotenti. Di fatto, i sovrani hanno difficoltà a controllare le popolazioni nomadi, che, a volte, finiscono per costituire una vera e propria piaga, un ostacolo insormontabile, un nemico irriducibile col quale è meglio scendere a patti.
A volte i clan di pastori diventano così numerosi che i loro spostamenti si fanno più difficili, mentre cresce la necessità di ricorrere alle razzie. A questo punto, lo scontro con le città diventa quasi inevitabile e assume la forma di una vera e propria guerra. L’ordinato esercito urbano ha maggiori probabilità di imporsi su quelle orde di pastori tanto fameliche quanto disorganizzate, che, tuttavia, pur pagando un rilevante contributo di sangue, non vengono mai annientate, perché molti riescono a fuggire in luoghi remoti e impervi, da dove ricominciano una nuova storia. Dapprima si danno al brigantaggio spicciolo, saccheggiano e spariscono in luoghi inaccessibili agli eserciti, ma, via via che il loro numero cresce, aumenta anche il loro bisogno di risorse, e, per conseguenza, aumenta anche il numero e la portata delle loro incursioni, tanto da indurre il re ad intervenire col suo esercito. Solo se i clan e le tribù nomadi riescono a compattarsi sotto il comando in un unico condottiero e a concertare un attacco relativamente ordinato, possono ben sperare in un successo. Le orde nomadi entrano allora nella città, massacrano l’élite dominante e si insediano al suo posto. Assiso sul trono reale, il condottiero «barbaro» distribuisce il territorio fra i suoi collaboratori, i capi-clan, e impone il tributo ai contadini. Sono loro i nuovi padroni.
Nei capitoli che seguono avremo modo di sviluppare e approfondire i concetti che abbiamo appena accennato in queste pagine introduttive.
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