Fino a un milione di anni fa, l’ominide ha vissuto in piccoli gruppi familiari relativamente isolati e in modo non sostanzialmente dissimile rispetto ad altri mammiferi evoluti. Per quattro lunghi milioni di anni la sua sopravvivenza è stata affidata alla famiglia e la famiglia ha svolto dignitosamente la sua funzione, anche se in molte occasioni essa si è rivelata incapace di offrire una valida tutela ai propri membri, sicché la mortalità è rimasta elevatissima, e non solo a livello neonatale e infantile: le donne sono morte prevalentemente per complicazioni da parto, gli uomini per infortuni o ferite riportate in varie occasione, e tutti, piccoli e adulti, hanno costituito un ottimo pasto per licaoni, leopardi e leoni. La crescita demografica è stata perciò lenta, e lenta è stata anche l’espansione territoriale, il che ha consentito agli ominidi di muoversi liberamente da un luogo all’altro alla ricerca di cibo. Per tutto questo periodo essi non hanno maturato l’idea di attaccamento ad un territorio, né quella di proprietà privata e, per conseguenza, non conoscevano nemmeno la guerra. Perciò questo periodo verrà chiamato «età dell’oro» (CHAVAILLON 1998: 40), quasi ad indicare che gli ominidi potevano vivere liberi e felici.
Dall’habilis all’erectus
Per quanto lenta, la crescita demografica è tale da portare l’habilis ad occupare, nell’arco di un milione di anni, gran parte del Continente africano, con conseguente restrizione degli spazi di movimento. Intorno a 1,5 Myr fa, la nuova situazione demografica finisce per selezionare una nuova specie, che dispone delle qualità necessarie ad affrontare con successo le sfide del momento: l’homo erectus. Rispetto all’habilis, l’erectus è caratterizzato da una maggiore mole fisica, un cervello più voluminoso e una superiore intelligenza, che lo rendono capace di cogliere l’importanza dell’agire collettivo e della cooperazione ai fini della propria sopravvivenza. Grazie a queste qualità, l’erectus amplia gli angusti limiti della famiglia e fonda la cosiddetta società di banda, la quale si forma quando un figlio maschio adulto si accoppia con una sorella (o con una donna proveniente da una famiglia vicina) e i suoi genitori, anziché cacciarlo, continuano ad accettarlo come membro della famiglia e consentono che egli si accampi poco distante da loro.
Il passaggio dalla famiglia alla banda, tuttavia, non è sufficiente ad elevare l’erectus a livello umano. “Anche i nostri parenti animali più stretti, i gorilla e le due specie di scimpanzè, vivono in bande” (DIAMOND 1998: 213). L’erectus che vive in banda rimane, dunque, allo stato animale, come i suoi cugini primati: non è ancora un «uomo» e, perciò, continueremo a chiamarlo «ominide».
La società di banda nel Paleolitico superiore
La banda è un gruppo di piccole dimensioni (25-250 individui) composto da poche famiglie strettamente imparentate che, pur vivendo separate, all’interno di un territorio comune, ciascuna in una propria area e provvedono alle proprie necessità in modo autonomo, si riconoscono come un’unica, grande famiglia e ignorano qualsiasi apparato istituzionale e qualsiasi stratificazione sociale. La distribuzione spaziale delle famiglie è tale che, per ciascuna famiglia, dev’essere possibile il contatto visivo almeno con un’altra famiglia e non devono frapporsi ostacoli alla comunicazione con tutte le altre famiglie. L’intero territorio della banda deve avere un’estensione tale da essere percorribile a piedi da un capo all’altro in un giorno, non deve cioè superare i 300 Kmq. Un territorio più vasto, infatti, renderebbe praticamente impossibile quel minimo di rapporti ordinari che sono necessari per legare fra di loro tutti i membri della banda e farne un unico gruppo. In pratica, una banda comprende da due a venti famiglie per un complessivo di 20-300 membri, mediamente un centinaio di soggetti, distribuiti in un territorio di 100 Kmq.
Questa nuova comunità consente un migliore sfruttamento delle risorse territoriali e fa sì che si rendano nuovamente disponibili spazi liberi e si ripropongano condizioni simili alla precedente «età dell’oro». Perciò, le bande riacquistano una discreta libertà di movimento e possono spostarsi continuamente alla ricerca di luoghi che offrano acqua, pascoli e vegetali commestibili. È la vita dei nomadi. Non avendo un luogo stabile di residenza, i nomadi continuano ad ignorare il concetto di proprietà terriera o l’abitazione stabile: la loro casa è un semplice riparo naturale, che cambia continuamente, a seconda delle esigenze del momento. Il cibo viene consumato via via che viene reperito, secondo il principio che ciascuno pensa per sé. Quando capita l’occasione, si pratica anche la caccia e la pesca e, se la preda è di discrete dimensioni, i membri del gruppo si aspettano che essa venga spartita (e, di solito, così avviene).
Il tipo di rapporto che si stabilisce tra le diverse famiglie di una banda dipende essenzialmente dalla distanza che le separa: due famiglie che vivono ai poli estremi del territorio, poniamo a 5 Km di distanza, hanno molto meno opportunità di frequentarsi e di conoscersi di quanto avviene fra due famiglie distanti solo 500 metri l’una dall’altra. La situazione cambia in caso eventi straordinari, come un’opportunità di caccia particolarmente rischiosa, o una situazione di pericolo, come un incendio o uno sconfinamento da parte di un’altra banda, allorché i maschi dominanti possono decidere di raccogliere le proprie famiglie in un unico luogo ritenuto più sicuro e concertare un’azione comune, come se fossero una sola grande famiglia.
La banda rappresenta una forma di società di dimensioni superiori rispetto a quella familiare, ma con una logica che rimane ancora quella della famiglia. Non è più una semplice famiglia, perché di fatto è costituita da più nuclei familiari, ma non è nemmeno una società eterogenea, perché ciò che tiene legati fra loro i suoi membri rimangono i vincoli di sangue e i rapporti di prossimità. In un certo senso, la banda può essere considerata come un tentativo riuscito, da parte della natura, di rendere possibile la convivenza solidale di più famiglie strettamente imparentate, le quali, oltre a garantire un migliore sfruttamento del territorio, rispondono meglio ai bisogni dei singoli individui, offrendo loro innegabili vantaggi in termini di sopravvivenza. All’interno della banda la famiglia continua a sussistere, anzi rimane il modello ordinario di società, ma è nei momenti di difficoltà che emergono i vantaggi del grande gruppo. Quando, per esempio, all’interno di una famiglia, una femmina muore durante il parto o il maschio dominante viene predato, un’altra famiglia può intervenire e risolvere il grave problema dei superstiti. Insomma, la banda non annulla la famiglia, ma la comprende e la integra, affermandosi come una garanzia di seconda istanza per la sopravvivenza dell’individuo.
Limiti della banda
In quanto società di tipo familiare, la banda presenta gli stessi limiti della famiglia. Tanto nella famiglia quanto nella banda, infatti, i legami che tengono coesi i membri del gruppo sono di tipo parentale e richiedono una conoscenza e un contatto fisico costante e regolare, il che ne coarta la capacità di espansione, sia demografica che territoriale. Un altro importante limite della banda è costituito dalla difficoltà di far fronte ai ricorrenti periodi di scarsità. Il problema è facilmente superabile se la penuria è di lieve entità e transitoria o se c’è disponibilità di spazi (in tal caso è sufficiente che la banda si sposti in un territorio vicino), ma può avere conseguenze serie, spesso insuperabili, qualora la presenza di altri gruppi confinanti impedisca qualsiasi spostamento o se la carenza di risorse sia grave e duratura.
I periodi di crisi profonda e durevole non devono essere particolarmente frequenti, ma nemmeno costituiscono un evento eccezionale e, quando arrivano, finiscono immancabilmente per sconvolgere i normali rapporti fra le famiglie di una banda o fra i membri di una stessa famiglia con conseguenze variabili, che possono giungere fino all’estinzione della banda stessa. Le crisi gravi e persistenti favoriscono l’insorgenza di conflittualità tra le famiglie della stessa banda, ciascuna delle quali potrebbe chiedersi: perché dovrei dividere il cibo con degli «estranei»? Perché dovrei preoccuparmi delle altre famiglie e mettere a rischio la mia stessa sopravvivenza? Così, molti si mostrano disponibili a cooperare solo all’interno della propria famiglia, ma, col passare del tempo e perdurando lo stato di crisi, ciascuno comincia a pensare solo a se stesso, rendendo inutili o spezzando quei legami parentali che fino a quel momento hanno costituito un punto di forza sia della famiglia che della banda.
Le strategie delle bande nei periodi di crisi: la legge di Malthus
L’intero corso delle vicende inerenti lo sviluppo della vita sociale e l’evoluzione culturale dell’uomo è avvenuto sotto il controllo di due superne leggi: una la conosciamo già: è la legge del più forte; l’altra è l’eterna altalena fra disponibilità delle risorse e andamento demografico, che chiamiamo legge di Malthus dal nome dell’economista inglese che l’ha magistralmente descritta per la prima volta. In pratica, “tutte le popolazioni animali tendono a incrementarsi fino a un limite, determinato dalle risorse disponibili” (BOCK 1978: 152), raggiunto il quale, esse devono trovare una qualche soluzione, che può essere un calo delle nascite o un incremento della mortalità, o un migliore sfruttamento delle risorse, o il reperimento di un territorio più ricco, magari cacciando i suoi abitanti, oppure un cambiamento dei rapporti coi propri vicini.
Malthus ha calcolato che “la popolazione, quando non è frenata, cresce con una progressione geometrica in ragione tale da duplicarsi in 25 anni” (1998: 61), mentre la produzione di cibo ha un andamento variabile e, quando aumenta, aumenta in misura molto ridotta rispetto alla crescita demografica. Ciò significa che gli uomini si moltiplicano ad un ritmo più veloce rispetto a quanto facciano i mezzi di sussistenza e, pertanto, sono inevitabilmente esposti al rischio di ricorrenti periodi di scarsità, con cui ogni comunità dovrà immancabilmente fare i conti. Ne consegue che “la crescita della popolazione deve essere quasi permanentemente sottoposta ad un potente freno” (MALTHUS 1998: 65). Ora, quando le risorse sono insufficienti, per la comunità si aprono due prospettive: o ridurre il proprio numero o trovare il modo di procurarsi nuove risorse. Per quanto concerne la crescita demografica, essa può essere rallentata o riducendo la fertilità e, quindi, la natalità (carenze alimentari, eccessiva fatica, malattie), oppure aumentando la mortalità (anche attraverso pratiche di infanticidio, specie delle femmine). Le maggiori risorse, invece, possono essere procurate o migliorando lo sfruttamento del territorio o sottraendole ad altri.
Come vedremo nel corso del libro, quello che gli uomini hanno fatto, spinti dai propri bisogni, le loro scelte, i loro comportamenti, sono stati plasmati e si devono comprendere alla luce di queste due leggi. “I primi grandi stimoli della mente paiono essere i bisogni del corpo” (MALTHUS 1977: 171). Ma a questi dobbiamo aggiungere i bisogni dello spirito, che sono molto più numerosi e sfumati. A partire da questi bisogni e in rapporto alla disponibilità di risorse, l’uomo attiva la propria mente, e questa sceglie la condotta da seguire di volta in volta, il cui esito dipende in parte dai rapporti di forza, in parte da eventi imponderabili e dal caso. Cosicché, in fin dei conti, l’intera storia dell’uomo va letta e compresa alla luce dei suoi bisogni.
Anche i rapporti fra le bande dipendono dal variabile equlibrio tra densità demografica e disponibilità delle risorse. Ora, come abbiamo osservato, nei periodi di crisi grave o persistente la coesione dei membri si indebolisce e perfino le famiglie rischiano di disgregarsi. Ebbene, in simili casi, prima che si giunga all’irreparabile, di norma, i maschi e le femmine dominanti si affannano alla ricerca di una soluzione. Ma quale? Si può decidere di razziare il territorio di una banda vicina accettando il rischio di soccombere, oppure si può decidere di tentare l’attraversamento del territorio altrui e intraprendere un avventuroso viaggio alla ricerca di uno spazio libero in cui insediarsi. Una siffatta decisione comporta insidie di ogni genere ed è carica di incognite, ma, con un po’ di fortuna, può essere coronata da successo. I primi posti ad essere occupati sono quelli più ricchi di risorse e poi, a decrescere, quelli meno favorevoli, fino ad un limite oltre il quale nessuna sopravvivenza è possibile: i territori francamente inospitali (le aree impervie o montagnose, le zone desertiche o paludose, le grandi foreste) possono tutt’al più rappresentare luoghi di transito e, come tali, essere solo temporaneamente occupati. In virtù di queste strategie, col passare del tempo, ogni regione diviene sempre più densamente abitata e, sempre più spesso, ci si deve accontentare di vivere in zone povere. Così, intorno a 100 kyr fa, intere regioni del Continente africano, le più ospitali, risultano essere ad elevata densità demografica, suddivise in tanti piccoli territori, mediamente di circa 100 Kmq, ciascuno dei quali è controllato da una banda. In queste condizioni, le possibilità di una banda di trovare nuovi territori disponibili risulta remota: un territorio si libera solo se periscono gli abitanti che vi risiedono o se vengono cacciati con la forza. Nelle regioni aride, invece, continua a prevalere il nomadismo.
Rapporti fra bande
Abitualmente, due bande entrano in contatto fra loro o perché occupano territori confinanti oppure perché si incontrano occasionalmente, soprattutto in particolari luoghi di transito, dove tendono a stabilire rapporti di tipo pacifico e di circostanza, che cessano con la ripresa del viaggio. Le bande non mostrano interesse a sviluppare rapporti stabili, né positivi, né negativi, essendo loro del tutto estranea la mentalità sia di cooperazione che di conquista. La ragione di questo atteggiamento, che a noi oggi potrebbe sembrare bizzarro, è semplice: per sua stessa natura, la banda non può superare il limite territoriale di 300 Kmq e perciò non può manifestare interessi tesi ad ampliare il proprio raggio d’azione oltre questo invalicabile limite. Ed è per questa stessa ragione che, anche quando l’intero Continente africano sarà completamente occupato dall’erectus, continueranno a prevalere i rapporti di buon vicinato, che sono regolati da un codice non scritto di norme sancito da una tradizione ancestrale, il quale comanda di non calpestare il territorio di un altro, di non utilizzare la sue fonti di acqua, di non sottrarre le sue donne o i suoi beni, di non ingannarlo, frodarlo o ucciderlo. Si sa, infatti, che la violazione di tali norme potrebbe sfociare in un deterioramento dei rapporti e in uno stato di tensione che non conviene a nessuno.
Quando qualcosa viene a turbare i buoni rapporti, due bande trovano, quasi sempre, il modo per ricomporre la tensione e giungere ad una conciliazione e, se ciò non dovesse bastare, è sufficiente che una di esse si allontani verso una qualsiasi direzione, ammesso che ciò sia possibile, per porre termine alle ostilità. Una banda, infatti, non ha alcun vantaggio a mettersi all’inseguimento di un’altra, perché non ha alcun vantaggio a combattere. I conflitti armati tra bande sono dunque eccezionali e per lo più circoscritti nelle regioni ad alta densità demografica e con scarse vie di fuga e sono generalmente scatenati da eventi atmosferici avversi (per es. siccità), che spingono un gruppo a evacuare il proprio territorio e a battere nuove vie in cerca di luoghi migliori. In questi casi, una banda può attaccare un’altra banda per appropriarsi di talune sue risorse o dell’intero suo territorio, secondo la logica della mors tua vita mea, non certo di tipo espansionista.
In assenza di gravi pericoli per la sopravvivenza, nelle regioni più fertili e più densamente popolate, le bande tendono a migliorare la propria organizzazione interna e a stabilire rapporti sempre più stabili e vantaggiosi coi vicini. Avendo come obiettivi primari l’ottimale sfruttamento del territorio e la vigilanza sui suoi confini per difendersi da eventuali intrusioni, furti e razzie, le singole famiglie tendono a disporsi nelle zone che ritengono più favorevoli, perfino in vicinanza del confine, a costo di perdersi di vista. Ora, quanto più le famiglie si allontanano, tanto più si indeboliscono i loro rapporti, e, quando due famiglie vivono in luoghi distanti più di 5 Km, diviene possibile che alcuni dei suoi membri non si incontrino mai e maturino proprie esperienze, proprie consuetudini e certe, per quanto piccole, differenze di linguaggio. Inoltre, mentre si allentano i legami fra famiglie imparentate, acquistano rilevanza i rapporti di vicinato e non è raro che due famiglie di confine, appartenenti a due bande diverse, stabiliscano fra loro rapporti di pari livello, se non più stretti, tra quelli che le legano due famiglie lontane della stessa banda. Da questa nuova realtà nascerà, come vedremo, la società di clan, di cui ci occuperemo nel prossimo capitolo.
Ricostruzione di una società di banda
Proviamo ad immaginare una lussureggiante area pianeggiante di 15X15 km, che costeggia un fiume in prossimità di un guado, che è usato come zona di transito dalle mandrie di gnu in occasione dei loro periodici spostamenti: praticamente il massimo di quanto un ominide possa desiderare. In quest’area vivono 250 individui distribuiti in 15 famiglie, ciascuna delle quali ha fissato il proprio campo base in luoghi distanti fra loro da un minimo di 500 metri ad un massimo di 18 km. Dal momento che tutti si riconoscono come membri della stessa banda, fanno parte cioè di un’unica comunità, ne consegue che non ci sono precisi limiti territoriali fra una famiglia e l’altra e ciascuno è libero di muoversi a piacimento nell’intera area e interagire liberamente con ciascun altro. Ma, dal momento che le madri con i loro piccoli tendono a trattenersi nelle vicinanze dei rispettivi campi base, di fatto i soli soggetti veramente liberi di muoversi sono i maschi adulti e le poche femmine adulte senza figli, in tutto una cinquantina di individui, che costituiscono, per così dire, il sistema nervoso dell’intera collettività. Li chiameremo «ominidi liberi».
Instancabilmente, gli ominidi liberi perlustrano il territorio in lungo e in largo e imparano a conoscerlo fin nei minimi dettagli, spiano quanto succede nei territori contigui, controllano che non vi siano sconfinamenti da parte di bande vicine, si assicurano che la situazione è tranquilla e non ci sono pericoli in vista, raccolgono e consumano cibo, si scambiano informazioni di ogni tipo, si accordano per catturare una difficile preda e per dividerne le parti, che poi trasportano presso il proprio campo base per dividerle con gli altri. Non è detto che ciascuno faccia ritorno in giornata al proprio campo base ma, se un evento importante trattiene un soggetto lontano dal suo campo base e, se qui lo coglie l’imbrunire, egli non esita a prepararsi un giaciglio sui rami di un albero o individuare un luogo sicuro dove trascorrere la notte insieme ai suoi compagni.
La diffusione della caccia
Grazie alla presenza di ominidi liberi, le attività di caccia sono in continua crescita e, col passare del tempo, finiscono per acquistare grande prestigio. Esse non si limitano soltanto ad arricchire l’offerta alimentare, ma costituiscono un evento carico di conseguenze per la vita sociale del gruppo. In un recente libro, G.B. Stanford sostiene la tesi che “le origini dell’intelligenza umana sono legate all’acquisizione della carne nella dieta” (2001: 13), ed ha ragione. La caccia finisce per sconvolgere il tranquillo trantran quotidiano dei nostri progenitori e modifica profondamente il loro stile di vita, la loro organizzazione e la loro cultura, per ragioni che non è difficile comprendere. Infatti, quando si cerca cibo vegetale, ciascuno raccoglie quanto gli serve e lo consuma in autonomia: non c’è necessità di organizzarsi e cooperare. Non così per le attività di caccia, specie se di animali di grossa taglia, che richiedono l’azione concertata di molti e non sono alla portata di una famiglia, che può fornire non più di due-tre soggetti idonei allo scopo, mentre una banda ne può fornire decine, con prospettive di successo ben maggiori.
Un gruppo compatto di dieci o cinquanta ominidi, armati di pietre e bastoni, è in grado di catturare e abbattere perfino un mammuth, anche se la riuscita dell’impresa non è scontata. L’ominide continua ad usare, come nel passato, le unghie e i denti e ogni oggetto appuntito o tagliente che può reperire in natura, come rami, ossa e sassi, ma ciò talvolta non si rileva sufficiente. Alla fine, spinto dalla necessità, l’ominide impara a costruire una nuova, temibile arma, l’amigdala, una pietra opportunamente scheggiata e particolarmente adatta a tagliare, squartare e uccidere. Ma l’arma da sola non si rivela sufficiente ad assicurare il successo. Manca ancora una cosa, forse la più importante: l’organizzazione. Per chiudere con successo una battuta di caccia occorre una razionale divisione dei compiti, un elaborato sistema di comunicazione e una fine coordinazione delle singole azioni, in funzione di un obiettivo comune. Le prede uccise devono poi essere trasportate, macellate e, infine, divise fra tutti i membri della banda, secondo certe regole, che tengano conto essenzialmente dell’età e del sesso di ciascuno.
Società egalitarie
Per certi versi si potrebbe essere indotti a credere che l’affermazione delle attività di caccia rappresenti l’apoteosi della legge del più forte, ma così non è. Certo, non tutti sono abili nello stesso modo e le differenze individuali, che possono essere di grado marcato, difficilmente sfuggono ai membri del gruppo. Questo però, nella società di banda, non costituisce una ragione valida per costruire una gerarchia sociale sulla base della legge del più forte. Nella banda tutti si conoscono sin da piccoli e nessuno può nascondere i suoi difetti e i suoi punti deboli (e chi non ne ha?), ma nessuno è privo di meriti. La forza non è il solo attributo fisico di un soggetto: c’è anche la pazienza, la saggezza, la capacità di impegnarsi nelle piccole cose, di allevare e curare i figli, e altro ancora, che fa di ciascuno un membro utile e prezioso per la comunità. Nella banda è radicata la consapevolezza generale che nessuno, da solo, per quanto forte, abbia la benché minima probabilità di successo in attività particolarmente rischiose quali sono quelle venatorie, dove il contributo di ciascuno è irrinunciabile e il vero punto di forza è legato non tanto al singolo quanto al gruppo. Nessuno si sente superiore e tutti sanno che dipendono dagli altri.
Nella banda, come già nella famiglia, non ricorrono le condizioni perché un qualsiasi individuo possa essere valorizzato e idealizzato a tal punto da farlo assurgere ad uno status sociale superiore a quello di ogni altro. Così, la legge del più forte rimane nell’ombra e si intravede appena sullo sfondo, costì relegata da un’altra legge ancora più importante per la sopravvivenza, la legge del consenso del gruppo, l’unica che conta veramente. Perfino il più forte deve inchinarsi di fronte a questa legge suprema e scendere a patti con gli altri, far loro delle concessioni, dividere con loro la sua preda, nascondere i suoi meriti personali dietro forme comportamentali che, in definitiva, favoriscono l’unità del gruppo piuttosto che la sua leadership. Finché il gruppo è compatto c’è speranza, quando il gruppo si disgrega è la fine.
Nella società dei cacciatori-raccoglitori ogni membro è importante ed è chiamato a svolgere la sua parte, secondo le sue possibilità. L’esito della battuta di caccia, poi, ancorché legato alla bravura di un singolo cacciatore, viene sempre ricondotto all’azione corale di tutti i partecipanti, al gioco di squadra. Può esserci l’eroe del giorno, certo, e può anche affermarsi una figura di leader, ma, in ogni caso, essa è “priva di effettiva autorità” (ARIOTI 1996: 29). Non essendoci spazio per un capo stabile e assoluto, nessuno ha interesse a proporsi come tale e, di fatto, a nessuno è concessa la facoltà di prendere decisioni per il gruppo, almeno in modo fisso e codificato. Lo ha insegnato una secolare esperienza: se uno volesse imporsi con la forza sul gruppo, per lui sarebbe la fine.
Ben presto, benché sia la raccolta a costituire la principale fonte di cibo, la caccia assurge ad attività di maggior prestigio e, tuttavia, persiste nella banda “l’assenza di qualsiasi tipo di autorità permanente e organizzata e di capi riconosciuti; l’unica forma di autorità è rappresentata da un leader che viene scelto dai membri della banda per le sue qualità personali e al quale viene affidato soprattutto il compito di guidare le spedizioni di caccia” (SCARDUELLI 1993: 731). Nelle società di banda “il leader è semplicemente l’uomo più anziano o il più ricco di esperienza del gruppo. Egli può decidere quando e dove spostare l’accampamento, e quali tecniche di caccia adottare; può tentare di comporre dispute all’interno della banda; ma al di fuori di queste funzioni specifiche, non ha alcun potere sui membri della banda” (BOCK 1978: 132). “Nelle società di banda non esistono neppure meccanismi istituzionali per mantenimento dell’ordine e la soluzione dei conflitti interni; le controversie vengono risolte direttamente dagli individui che vi sono coinvolti” (SCARDUELLI 1993: 731). “La banda è [dunque] un gruppo fortemente egalitario. Non esistono al suo interno posizioni individuali di autorità, né tanto meno di potere. L’attribuzione dei ruoli è in relazione al sesso e all’età e viene a determinare posizioni asimmetriche ma non ineguali” (ARIOTI 1996: 29). Ancora oggi, nelle società di banda la partecipazione paritaria di tutti i membri adulti è la regola, “il consenso è tutto” (STANFORD 2001: 167).
Il ruolo dei ragazzi
Non abbiamo ancora parlato dei piccoli già cresciuti, ma non ancora divenuti adulti, chiamiamoli pure «ragazzi». Si può parlare di un loro ruolo? Che ruolo potrebbero aver svolto dei ragazzi? Oggi, quando si parla di ragazzi, di solito si pensa a qualcuno che deve crescere, al ricambio generazionale, alla perpetuazione della specie. A questo servono principalmente i figli. Ciò è certamente vero, ma verosimilmente è da ritenere riduttivo in un’epoca in cui gli ominidi cominciavano appena a prendere coscienza di sé e del mondo e tutto doveva apparire loro come nuovo e degno di attenzione e interesse. In queste condizioni, la tipica attitudine al gioco dei ragazzi potrebbe aver svolto un ruolo significativo nel processo di conoscenza dell’ambiente ed è possibile che, proprio attraverso il gioco, i ragazzi abbiano dato un importante contributo al progresso, rivelando doti di geniali, quanto inconsapevoli, di inventori e scopritori. Possiamo immaginarli mentre si divertivano a giocare con alcuni fiori che, spremuti, liberavano gocce di liquido colorato, di cui essi si servivano per «impiastrarsi», o raccoglievano pietre colorate e conchiglie, che disponevano sul terreno in vario modo col semplice scopo di divertirsi. Ogni cosa poteva attirare la curiosità di un ragazzo e costituire oggetto di gioco. Si può ragionevolmente pensare che le vigili madri sgridassero i loro figli ogni volta che essi maneggiavano oggetti sconosciuti, se potevano apparire pericolosi, mentre, quando erano sicuramente innocui, essi potevano entrare nell’uso quotidiano. Nulla ci vieta di immaginare dei ragazzi che, attraverso il gioco, possono aver scoperto i segreti dell’agricoltura.
Il gioco dell’orzo
La banda stava attraversando un periodo florido e tutto appariva tranquillo. I ragazzi della famiglia A potevano allontanarsi un po’ più del solito dal campo base e giocare insieme ai coetanei della vicina famiglia B, che era distante poco meno di 1 km. Il gioco che avevano inventato costituiva la novità dell’anno ed era fra i più praticati. I ragazzi raccoglievano alcune spighe di orzo selvatico e, dopo averle sgranate, ponevano i chicchi in un luogo ben esposto; poi si nascondevano nelle vicinanze in attesa che qualche uccello andasse a beccarli; a quel punto uscivano d’improvviso dal nascondiglio urlando e agitando le mani per mettere paura all’ingenuo animale, oppure gli lanciavano sassi o rami, come in una battuta di caccia, ad imitazione degli adulti. Il divertimento era assicurato.
A gioco finito, i ragazzi erano soliti conservare in un luogo sicuro i chicchi che non venivano consumati, per potersene servire in un altro momento. Uno dei ragazzi aveva imparato a usare come nascondiglio un ampio e profondo incavo scavato in un tronco d’albero, che di solito era parzialmente ripieno di terra: riponeva i chicchi nell’incavo e li copriva con delle foglie, con l’intenzione di potersene servire in un altro momento. Ma poi accaddero cose che, per qualche tempo, lo tennero lontano dal gioco, e quando ritornò a recuperare i suoi chicchi, con sua meraviglia, scoprì che essi erano spariti e al loro posto erano cresciute delle piantine d’orzo. Pensò di essersi sbagliato e riprese la vita di sempre. Ma, poiché il fenomeno si ripetè, il ragazzo pensò che qualcuno gli avesse fatto uno scherzo e, volendone scoprire l’autore, dopo aver deposto, come al solito, i chicchi d’orzo nell’incavo, controllava ogni giorno che non ci fossero segni di manomissione. Dopo alcuni giorni però, notò ancora che dalla terra spuntavano le solite piantine d’orzo. Il fenomeno dunque si ripeteva e sembrava un fenomeno naturale. Cosa poteva significare? Ne parlò con genitori e compagni, ma nessuno sembrò dar peso a quel racconto e tutto finì con una risata generale. Per un po’ non ci si pensò più.
L’intelligenza dell’erectus
Di se stesso e del mondo che lo circonda l’ominide inizia a prendere una pallida coscienza già 1 Myr fa, quando ancora non dispone di alcuno strumento idoneo a controllare i fenomeni naturali. Il mondo gli appare stupefacente e terribile, generoso e crudele, in una parola enigmatico. Quello stesso mondo gli fornisce ciò di cui ha bisogno, ma gli tende anche mille insidie, mentre lui non dispone di altro che delle sue mani e del suo cervello. Il leopardo si muove agile e silenzioso e attacca in modo fulmineo e implacabile. Chi gli dà tanto coraggio e tanta forza? Le nuvole portano la pioggia e poi si allontanano chissà dove; il vento soffia un po’ di qua e un po’ di là; il sole si leva al mattino e tramonta la sera. Acqua, vento e sole svolgono di solito un’azione benefica, ma possono provocare danni e perfino uccidere. Chi muove le nuvole? Chi spinge il vento? Che cos’è il sole? A queste domande l’ominide non ha risposte. E non solo a queste. Perché certe montagne sputano fuoco? Perché a volte la terra trema? Che cosa sono la luna e le stelle? L’ominide non ha risposte, ma una certezza ce l’ha: la sua vita dipende da quegli strani fenomeni, che egli non comprende e di fronte ai quali è impotente.
Il segno più estremo e drammatico della sua fragilità è certamente costituito dalla morte, che è forse il mistero più impenetrabile fra quelli con cui l’ominide è chiamato a confrontarsi. Già questo nuovo modo di porsi dinanzi al mondo, questo stupore e questa paura costituiscono la prova evidente che è nata una coscienza nuova, una capacità di guardare alle cose con occhi diversi e di dar loro un significato nuovo. Così avviene anche per quella cosa, del tutto banale e ovvia, che è l’acqua. L’erectus è il primo a prendere coscienza che l’acqua, pur essendo assolutamente necessaria per la vita, può dare la morte. Riesce anche a cogliere la differenza tra acqua dolce e salata: solo l’acqua dolce è benefica, anche se talvolta può inondare i campi e rovinare il raccolto, travolgere e distruggere interi villaggi, mentre quella salata non disseta, né rende fertile la terra. Si tratta di scoperte che da sole possono significare poco ma, se si considerano come fondamentali punti di partenza per ulteriori e sempre più complesse acquisizioni, possiamo ben considerarle davvero straordinarie.
L’erectus, dunque, è animato di sentimenti improntati principalmente alla meraviglia, alla paura e all’incertezza, e rimane perplesso dinanzi a tanti strani fenomeni che lo circondano. Mangiare una certa pianta può provocargli una serie di disturbi, come dolori addominali, nausea, vomito, diarrea, e perfino la morte. Lo stesso può succedere dopo il morso di un serpente. Egli impara ad evitare molti pericoli grazie alla sua intelligenza, cioè alla sua capacità di osservazione, di collegamento, di comunicazione e apprendimento. Non riesce però a capire da dove quella certa pianta o quel certo serpente traggano tanta potenza. Né capisce perché il sole si muove nel cielo, una montagna sputa fuoco, la pioggia cade o il fiume straripa. Il mondo gli appare immenso e impenetrabile, ricco di attrattive, ma anche di pericoli. In quel mondo si trova la vita, ma anche la morte. È un mondo misterioso, tutto da decifrare, e nessuno può dire: «io so». L’intelligenza dell’erectus è, tutavia, sufficiente a rispondere con successo alle innumerevoli sfide dell’ambiente.
Gli strumenti di pietra
Tra le risposte più importanti va ricordata la lavorazione della pietra. Già l’australopiteco si serviva dei sassi per svolgere alcuni lavori, come quello di rompere i gusci di certi frutti, ma si limitava a scegliere tra i sassi disponibili quello più adatto al suo scopo, senza apportarvi significative modifiche e abbandonava il suo strumento subito dopo l’uso. L’habilis aveva imparato a modificare grossolanamente la forma del sasso. L’erectus va oltre. Dopo aver selezionato il sasso da lavorare, egli riesce a modellarlo secondo la forma desiderata, utilizzando strumenti, fino ad ottenere oggetti di varia forma (appuntiti, taglienti, seghettati o smussati) adatti a svolgere specifici lavori, come perforare, tagliare, raschiare, segare, rompere, macinare, e via dicendo. I risultati non si rivelano subito brillanti, ma sono tali da incoraggiare gli ominidi a proseguire per quella strada e a perfezionare la tecnica.
Col tempo essi imparano a scegliere le pietre più adatte e a batterle con una crescente maestria e, gradatamente, la lavorazione delle pietre diviene una pratica comune e tutti vi collaborano. I ragazzi vanno in giro a raccogliere pietre e le portano nel campo base, dove i più grandi le selezionano e le lavorano realizzandone utensili di ogni tipo. La sua maggiore intelligenza consente all’erectus di lavorare la pietra in modo sempre più accurato e su una superficie sempre più ampia del sasso: l’utensile che maggiormente lo caratterizza, divenendone il simbolo, è il bifacciale (o amigdala), ossia un ciottolo lavorato su due facce o su tutto il perimetro. Il bifacciale si presta a diverse funzioni e di fatto viene utilizzato come un utensile multiuso, come piccone da scavo, raschiatoio, coltello, punteruolo, bulino, e altro ancora. L’amigdala raggiunse una notevole diffusione nel paleolitico superiore e 100 Kyr fa doveva essere ancora molto usata.
Il fuoco
Un’altra sensazionale scoperta dell’erectus è certamente quella del fuoco. Il fuoco può essere prodotto da cause naturali, come la combustione spontanea, un fulmine o l’eruzione vulcanica, e di solito, quando si accende, provoca danni e morte, potendo distruggere la vegetazione, gli animali e gli uomini di un intero territorio. Ecco perché di fronte al fuoco di solito l’animale fugge. Non così l’erectus. Grazie alla sua innata curiosità e intelligenza, a partire da circa 400 kyr fa, egli si avvicina al fuoco finché impara a conservarlo, a trasportarlo e a servirsene. Afferrare un tizzone ardente e, con esso, accendere un fuoco a distanza e per uno scopo desiderato sono attività tipicamente umane. Altro discorso è la capacità di accendere il fuoco artificialmente. Per questo dovrà passare ancora molto tempo: fino a 10 Kyr fa solo pochissimi uomini erano in grado di accendere il fuoco e ad essi venivano attribuite qualità eccezionali.
Numerosi e notevoli sono gli usi del fuoco: produrre luce e calore, creare atmosfere magiche, celebrare riti, favorire i rapporti sociali, tenere lontane le belve, rendere possibile l’insediamento dell’uomo nelle regioni fredde, cucinare i cibi, affumicare e conservare carne e pesce in modo da costituire riserve di cibo sempre disponibili, allontanare insetti, cauterizzare ferite, bruciare i rifiuti, fabbricare archi e canoe, conciare pelli e, più tardi, produrre oggetti in ceramica e lavorare metalli. “Senza fuoco l’uomo non avrebbe mai conquistato la Terra, non si sarebbe disseminato su di essa, non conterebbe oggi alcuni miliardi di individui, non esisterebbe un linguaggio articolato e non si leggerebbero libri perché non se ne scriverebbero. Senza il fuoco non vi sarebbe cultura” (ANATI 1992: 48).
Il linguaggio
Finché l’ominide vive in gruppi familiari il suo linguaggio è necessariamente povero. I membri di una famiglia, infatti, si conoscono così bene da capirsi con un semplice gesto, espressione del viso o suono vocale. L’estensione territoriale della banda, la maggiore distanza fra le famiglie, l’incremento delle attività di caccia, la spinta alla cooperazione, tutto ciò fa nascere l’esigenza di un linguaggio sempre più elaborato rispetto a quello familiare. È importante che un ominide possa comunicare, non solo ai membri della sua propria famiglia, ma anche a qualsiasi altro membro della banda, che vive a chilometri di distanza. A volte, l’informazione può essere questione di vita o di morte: la scoperta di una nuova sorgente d’acqua, o le impronte di un animale ferito o di un leopardo che si aggira nei dintorni, o l’avvistamento di estranei.
I membri della banda A hanno imparato a imitare il verso del cane e quello del leopardo, e il rumore dell’acqua, e fanno «bau», «grrr» e «splash» per indicare rispettivamente il cane, il leopardo e l’acqua. Senza saperlo hanno coniato le prime parole, di cui ora si servono per comunicare. Per dire che ha visto impronte di un cane ferito, un ominide può pronunciare ripetutamente il termine «bau» e contemporaneamente muoversi zoppicando e, se poi vuole anche indicare il luogo della scoperta la direzione verso cui l’animale si sta muovendo, può anche agitare le mani in un certo modo e volgere opportunamente lo sguardo. Gli altri comprendono bene il messaggio, almeno nelle sue linee essenziali, ed ecco perché sono sufficienti poche decine di suoni vocali come questi, oltre alla mimica facciale e ai gesti del corpo, per comunicare in modo soddisfacente all’interno di una banda. Lo stesso linguaggio, invece, si rivela spesso insufficiente quando si deve comunicare fra bande diverse, ossia fra estranei. Vedremo in che modo l’ominide affronterà e supererà questo problema.
8. Città e Stati (8 - 5.5 mila anni fa)
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