lunedì 3 agosto 2009

5. Clan e tribù (40 – 12 mila anni fa)

Dopo l’estinzione dei Neandertal (30 Kyr fa), il Sapiens ha occupato tutta l’Europa e l’Asia e si avvia a diventare il signore incontrastato del pianeta. Per la prima volta nella storia della Terra, una specie animale non ha più nemici da cui guardarsi e deve fare i conti solo con se stessa: è un’esperienza nuova e senza precedenti, affascinante e insieme drammatica, entusiasmante e insieme sconvolgente. Dotato com’è di intelligenza e linguaggio, l’uomo può rendersi conto del proprio stato, pianificare la propria esistenza, interrogarsi sulle proprie origini e sul proprio destino, sulle proprie fortune e sulle proprie disgrazie, sulla salute e sulla malattia, sulla vita e sulla morte, sul bene e sul male. Nei confronti dell’ambiente circostante egli constata quotidianamente la sua impotenza e la sua piccolezza, e ciò gli incute un disagevole senso di paura e insicurezza. È perciò fondamentale che egli trovi risposte adatte a infondergli la fiducia e la sicurezza necessarie per poter affrontare proficuamente i problemi di ogni giorno e, soprattutto, i momenti di maggior crisi. Queste risposte gli saranno offerte dalla religione.

La società di clan nel Paleolitico inferiore
Uno dei nostri assunti è che lo sviluppo culturale delle società umane si è svolto e modellato sotto la costante pressione dell’alternanza di periodi felici e tristi, di armonia e discordia, di abbondanza e scarsità. I fattori favorevoli e avversi appartengono essenzialmente a due categorie e si possono distinguere in naturali (benefici: acqua, sole, pioggia, vegetali commestibili, prede, ripari; malefici: terremoti, eruzioni, incendi, alluvioni, siccità e malattie) e umani (egoismo/altruismo, pacifismo/bellicismo, vizi/virtù, intelligenza/stupidità). Trentamila anni fa l’uomo ancora non conosce né se stesso, né il mondo. Non conosce la propria anatomia, né la propria fisiologia, né la propria psicologia, né la propria storia, né le proprie potenzialità, né è del tutto cosciente del proprio ruolo nella società e nel mondo. Pensa che tutto si risolva nella regione dove egli abita, mentre gli elementi naturali (cielo, astri, animali, piante, fiumi, mari, montagne) sono per lui oggetti impenetrabili ed enigmatici, così come misteriosi sono i fenomeni atmosferici (nuvole, pioggia, vento, nebbia, grandine). Comprende però chiaramente che la sua sopravvivenza e il suo futuro dipendono da questi elementi, che possono dargli la vita, ma anche la morte, così come è consapevole del fatto che gli altri possono aiutarlo a soddisfare i suoi bisogni, ma anche danneggiarlo e ucciderlo.
In estrema sintesi, le condizioni di vita all’interno di un clan dipendono dall’equilibrio fra demografia e risorse, che non è mai costante. Di fronte all’alternanza tra scarsità e abbondanza, in ogni caso ciascun clan deve provvedere da sé alle proprie necessità, senza poter contare sull’appoggio di altri gruppi: il clan è una società sostanzialmente chiusa. Il numero dei membri di un clan non è costante potendo variare a seconda della fertilità del suolo, delle condizioni climatiche e di altri eventi occasionali: in condizioni favorevoli cresce, in condizioni avverse cala. Anche nelle condizioni migliori, quando le risorse abbondano e la natalità è massima, bisogna fare i conti con una mortalità, che rimane sempre elevata (difficile superare i 30 anni di età), cosicché l’incremento demografico è in realtà più contenuto di quanto si possa immaginare. Le principali cause di morte sono le malattie infettive, gli squilibri alimentari, le parassitosi, i traumi, la predazione e le complicanze da parto. Un’epidemia può annientare un intero clan e renderne libero il territorio per l’insediamento di altri. Una carestia, che segue un lungo periodo di abbondanza, rappresenta uno dei momenti più delicati per un clan. Che fare allora?

I rapporti fra clan
Il comportamento degli uomini è fortemente condizionato dalla demografia regionale: se la regione è scarsamente popolata, il clan può mettersi in movimento alla ricerca di nuove fonti di acqua e cibo (è la vita dei nomadi), ma se la regione è densamente popolata, se cioè il territorio di un clan si trova circondato da altri territori abitati, non è possibile muoversi liberamente, perché bisogna fare i conti con i clan confinanti. E allora, se non si vuole correre il rischio di estinzione, le alternative possibili sono due: o si ottiene un aiuto dai vicini, oppure si limitano le nascite. La regola è semplice: quando le risorse scarseggiano e non si trova il modo di accrescerle, bisogna ridurre le bocche da sfamare, ed è quello che, secondo Harris, fa il Sapiens, il quale ricorre prevalentemente all’infanticidio femminile (1988: 56). Ovviamente, nulla ci vieta di pensare che il Sapiens abbia praticato le due cose insieme: la limitazione delle nascite e rapporti distesi e solidali coi vicini. Ora, non è detto che i rapporti fra clan fossero necessariamente stabili e cordiali, ma in ogni caso, ed è questo che più importa, quei rapporti si accompagnano inevitabilmente ad una migliore conoscenza reciproca dei clan, e ciò, come vedremo, sarà alla base di ulteriori sviluppi sociali.
Nel Paleolitico inferiore aumenta la concentrazione demografica e, di pari passo, aumentano anche le esigenze di risorse. Da questo momento, come nota Erodoto, nessuna terra è in grado di fornire tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno (I 32,8). La nuova sfida può essere affrontata con successo solo gettando lo sguardo oltre i propri confini territoriali e guardando alla terra dei vicini: spesso, ciò di cui un gruppo è carente un altro gruppo lo possiede in abbondanza. Cosa fare allora? Le soluzioni possibili sono due: o si cerca di espropriare gli altri dei loro beni attraverso azioni di forza, oppure si tenta la via dell’accordo pacifico e dello scambio commerciale. Insomma, da una parte si avverte l’esigenza di creare rapporti solidali con i gruppi civini, dall’altra parte si avverte l’esigenza opposta di depredarli. I due comportamenti si alterneranno nel corso dei secoli, potendo prevalere ora l’uno ora l’altro.
Un clan che sia colpito da una crisi di risorse che perduri nonostante la messa in atto di strategie finalizzate a limitare le nascite, se vive in un’area affollata, non può fare altro che guardare ai gruppi vicini e alle loro risorse. Esso può chiedere ai propri vicini una parte di cibo in cambio di una restituzione futura o di una promessa di riconoscenza, oppure può implorarli di essere lasciato libero di attraversare il loro territorio alla ricerca di nuovi spazi offrendo in cambio la rinuncia a fare ricorso alla forza. La risposta dei vicini potrebbe cambiare a seconda delle circostanze. Se nel passato i due gruppi si sono frequentati regolarmente, se si conoscono bene, se parlano la stessa lingua o se ci sono stati scambi di donne, le probabilità che si giunga ad un accordo pacifico sono relativamente elevate. In simili circostanze, un ruolo importante è anche svolto dall’occorrenza di un qualche evento occasionale straordinario, tipo un terremoto o un’eruzione, interpretabile dalla gente come un prodigio o segno della volontà divina, pro o contro l’integrazione dei due gruppi. In questi casi si possono stabilire fra due o più clan rapporti pacifici e solidali, che preludono ad una vera e propria integrazione e alla formazione di una tribù.
In mancanza di circostanze favorevoli ad un accordo pacifico, si può giungere all’impiego della forza, che può consistere in azioni isolate di razzie, operate da singoli individui o famiglie, oppure in un disperato attacco in massa all’ultimo sangue. In quest’ultimo caso, la conseguenza più probabile dello scontro è che i vincitori uccidano tutti i membri maschi, gli anziani e i bambini del clan perdente, tenendo per sé le giovani femmine. Il risultato finale è che un clan si estingue, lasciando libero il suo territorio. Il rischio di scontri all’ultimo sangue diviene particolarmente frequente verso la fine del periodo che stiamo considerando. Paul Ginsborg riferisce di un ritrovamento nella Nubia egiziana di un cimitero risalente a 14-12 Kyr fa e composto di resti di 59 uomini, donne e bambini morti per lo più per causa violenta. Secondo lo stesso autore, potrebbe trattarsi di una chiara testimonianza di una “prima forma di guerra” fra clan di cacciatori-raccoglitori (2004: 44). Ebbene, queste forme di guerra totale fra clan non dev’essere un evento raro sul finire del Paleolitico inferiore.

La selezione naturale dell’altruismo
L’evoluzione naturale può contribuire al processo di integrazione fra clan diversi favorendo, attraverso la selezione dei geni dell’altruismo e l’eliminazione dei geni dell’aggressività, i rapporti pacifici tra estranei e rendendo possibile la costituzione di gruppi sempre più ampi e organizzati. La ragione di questa selezione va ravvisata nel fatto che colui che affida la soddisfazione dei propri bisogni esclusivamente all’uso della forza, può aver successo solo fino a quando egli sia effettivamente più forte degli altri e riesca ad imporre su tutti la propria volontà. Tuttavia, è praticamente impossibile che un individuo conservi indefinitamente il suo primato di forza: prima o poi dovrà piegarsi di fronte a qualcuno che è più forte di lui, il quale, a sua volta, verrà sopraffatto da qualcun altro, e così via. Il più forte può vincere cento battaglie, ma alla fine perde sempre la guerra, e l’aggressività, se può dare qualche successo nel breve periodo, alla lunga è perdente. Al contrario, l’altruismo si può affermare come l’unica forza in grado di garantire, attraverso la formazione di gruppi sempre più estesi, una decorosa sopravvivenza dell’individuo, anche nella lunga distanza.
Dal momento che si basa su uno scambio di favori e offre vantaggi differiti nel tempo, il comportamento di apertura solidale non può affermarsi se non in una specie tanto intelligente da afferrarne l’importanza. Gli animali più semplici vivono alla giornata e non sono in grado di valutare i benefici futuri che potrebbero derivare da un comportamento presente. Solo il Sapiens è in grado di comprendere che l’aiuto che egli oggi offre ad un altro, domani potrebbe essergli restituito. Quello che si va affermando, insomma, non è un comportamento in perdita, ma vantaggioso: l’altruismo reciproco, un comportamento estremamente funzionale, che affonda le sue radici nella biologia, ma che è soprattutto un prodotto culturale. Ebbene, l’altruismo reciproco fa del Sapiens la specie più sociale del pianeta, il che non vuol dire che l’egoismo sia scomparso: vuol dire semplicemente che egoismo e altruismo entrano in qualche modo sotto il controllo dell’intelligenza simbolica e assumono una veste culturale. Ed ecco allora che l’aggressività si trasforma in trama, congiura, raggiro, inganno, menzogna, imboscata, rapina, razzia, incursione, guerra, barriere, fortificazioni, autarchia, endogamia, chiusura; l’altruismo si trasforma in distensione, apertura, rapporto di buon vicinato, scambio di doni e di favori, commercio, promesse mantenute, onestà, onorabilità, virtù, accordi, contratti, leggi, diplomazia, esogamia, dialogo.
Nelle regioni ad elevata densità demografica, i rapporti fra clan confinanti favoriscono non solo una migliore reciproca conoscenza, ma anche l’affermazione di codici comportamentali di buon vicinato, che, oltre a contenere il rischio di scontri violenti, creano i presupposti per una possibile futura integrazione fra clan. Il dovere di ospitalità, lo scambio di doni e di donne, il soccorso in caso di calamità, l’offerta di cibo all’affamato che ne faccia richiesta, si impongono tra le prime norme che due clan confinanti accettano di osservare. A ben considerare, queste norme altro non sono che la traduzione pratica del principio dell’altruismo reciproco, applicato nei rapporti fra estranei, allo scopo di contenerne la conflittualità e di orientarli a favore l’uno dell’altro. In realtà, il rischio di scontri armati fra clan è da ritenere quanto mai improbabile per la semplice ragione che un clan non può controllare un’area estesa oltre un certo limite e, conseguentemente, non ha alcun interesse a conquistare il territorio di un altro clan (HARRIS 1988: 49). Semmai, può attuare qualche razzia o qualche azione di furto o di rapina a spese di un gruppo vicino, il che può innescare un clima di tensione, con rischio di azioni di vendetta e ritorsioni, ma nulla di più. Insomma, il clan sembra già una società molto grande e manca una cultura favorevole all’affermazione di una mentalità espansionistica e imperialistica, manca l’idea di guerra e di conquista, allo stesso modo in cui manca l’idea «nazionalistica» di superiorità culturale di un clan rispetto ad un altro o di un Simbolo clanico rispetto ad un altro. Ogni individuo tende a racchiudere il mondo intero nella cerchia del proprio clan e tutto ciò che gli è esterno è secondario.

La spiegazione religiosa degli eventi
Il clan rimane la principale forma di società umana almeno fino a 30 Kyr fa, ma, a partire da questo periodo, si vanno realizzando fatti nuovi, che, come vedremo, porteranno all’affermazione della società tribale. I cambiamenti avvengono in modo impercettibile ma progressivo e sono da mettere in rapporto ad un fenomeno che conosciamo già: l’alternanza di periodi floridi e periodi di crisi, momenti felici e momenti tristi, eventi fortunati ed eventi tragici. Nei periodi di abbondanza i clan vivono in pace, si scambiano non solo beni e donne, ma anche idee, usi e costumi, e sono disposti ad aiutarsi in caso di necessità. Nei periodi di crisi, invece, essi si chiudono in un atteggiamento ostile e minaccioso e si danneggiano gli uni gli altri con rapine, razzie e perfino omicidi e stragi. Dell’alternarsi di periodi felici e amari gli uomini conservano la memoria e alcuni, soprattutto gli anziani (uomini e donne), ricordano come migliori i periodi caratterizzati da relazioni distese e dalla concordia e si prodigano affinché i rapporti fra clan non siano più turbati da tensioni e conflitti, si rispettino le norme condivise e si favoriscano in ogni modo gli scambi di beni e di cultura fra gruppi diversi. Altri invece, soprattutto tra i giovani maschi, credono che solo l’uso della forza sia in grado di assicurare il benessere del clan e caldeggiano un comportamento più aggressivo. Sono le due diverse anime del clan, che emergono prepotentemente nei momenti di crisi, prevalendo ora l’una ora l’altra e dando luogo a tensioni interne irriducibili.
Un’alluvione o un uragano portano distruzione e morte, mentre la pioggia porta cibo e salute. L’acqua dunque è, nello stesso tempo, un bene e un male. Perché? A causa della sua pressoché totale ignoranza, il Sapiens non trova di meglio che immaginare tutte le cose che non riesce a comprendere come il prodotto di una qualche spirito misterioso oppure immagina che esse stesse siano esseri viventi e potentissimi, provvisti di intelligenza e volontà. Così la pioggia è mandata da uno spirito buono, o essa stessa è uno spirito buono, mentre l’uragano è originato da uno spirito malefico o è esso stesso tale spirito. In breve, la sfera culturale del Sapiens, a partire da 40 Kyr fa, è costellata da miriadi di esseri animati, potenti e misteriosi, che si aggiungono al Simbolo clanico e, tutti insieme, governano i fenomeni naturali e le vicende della vita quotidiana, da cui il Sapiens dipende. Col passare del tempo, i nostri antichi antenati imparano a spiegare i fatti che non riescono a comprendere interpretandoli come opera di spiriti buoni e cattivi, spiriti che si possono implorare e orientare a proprio favore. Il Simbolo clanico rappresenta la principale forza benefica, che attira la fortuna e tiene lontane le avversità; mentre il «nemico invisibile» costituisce la fonte di tutti i mali. Si delinea, insomma, una visione dualistica della realtà, nella quale un principio del bene e un principio del male sono posti all’origine dell’alternanza del bene e del male nella vita quotidiana dell’uomo. Quello che si crea, alla fine, è un sistema ideologico, di tipo magico-religioso, in grado non solo di spiegare l’alternanza degli eventi, ma anche di intervenire su di essi e modificarli a proprio vantaggio.

L’animismo
È possibile, come suggerisce Dawkins, che l’uomo sia naturalmente predisposto alla religione (2007: 179), cioè che sia biologicamente programmato ad attribuire intenzioni a tutte le entità che costituiscono una minaccia potenziale per sé (2007: 184). Da ciò potrebbe derivare la mentalità animistica che caratterizza i nostri antichi progenitori. L’animismo attribuisce uno spirito vitale a tutti gli esseri inanimati, come gli astri, le acque, i venti, il fuoco, la luce e le tenebre, che così diventano soggetti viventi al pari degli uomini. Nella misura in cui questi soggetti sono fuori dal controllo umano, essi tendono ad essere considerati di natura superiore e divina. Da qui a popolare la fantasia di esseri spirituali di ogni tipo il passo è breve. Fra questi esseri, un posto di rilievo sarà occupato dall’anima, la quale spiega egregiamente fenomeni altrimenti misteriosi, come il sogno, la vita e la morte (HARRIS 2002: 293). L’animismo può spiegare agevolmente l’affermazione di tutte le religioni.

La diffusione delle pratiche rituali
Poco alla volta, all’interno di ciascun gruppo, si cominciano a strutturare dei comportamenti collettivi, più o meno codificati, cui si fa ricorso nei momenti di maggiore gioia o di maggiore dolore. Se piove poco o piove troppo, se una pestilenza uccide uomini e animali, se la terra trema, se una qualche minaccia incombe sul clan, in tutti questi casi ci si rivolge al Simbolo clanico con suppliche, danze, canti, doni, o in altro modo idoneo a richiamarne l’attenzione e ad attirarne la benevolenza.
Il rito è una sequenza di azioni prestabilite e solenni, accompagnati da formule, canti e preghiere. Esso costituisce una componente fondamentale di ogni religione e non serve solo a richiamare l’attenzione e la benevolenza del dio, ma anche a dare sfogo all’aggressività umana, alla rabbia, alla tensione emotiva, a incanalare i sentimenti violenti e pericolosi, ad attenuarli, a circoscriverli, affinché non diventino impetuosi e dirompenti. Per mezzo del rito un intento bellicoso e distruttivo può smorzarsi e affievolirsi fono a diventare inoffensivo (GELLNER 1999: 44-5).
Col passare del tempo questi gesti divengono sempre più ritualizzati e richiedono perciò una certa abilità e certe conoscenze, che non tutti possiedono. Il significato profondo del rito è quello di richiamare l’attenzione del Simbolo tribale su un certo problema e orientarlo favorevolmente alla sua soluzione. Ma il rito non è sufficiente. È anche necessario poter comunicare col Simbolo al fine di coglierne l’umore e la volontà, sì da potervisi adeguare e, possibilmente, volgerli a proprio favore.
Questo compito richiede esperienza, saggezza e altre particolari qualità, perciò non può essere affidato a chiunque, ma solo ad una persona straordinaria, degna del Simbolo, che, di norma, viene scelta fra i più anziani. All’anziano prescelto gli individui si rivolgono quando, mossi dall’ansia e dalla paura, cominciano a chiedergli: «Cosa sta succedendo? Perché il Simbolo si è offeso? Cosa possiamo fare per placare la sua collera?» Quando ciò accade, di solito l’anziano si apparta dal gruppo e si raccoglie in ascolto e meditazione per un giorno o più, trascurando le sue abituali occupazioni, astenendosi dai rapporti sessuali e tralasciando perfino di cibarsi, finché non sia riuscito a cogliere i segni del Simbolo o udire la sua voce. A quel punto informa i suoi fratelli e impartisce loro gli ordini necessari per riconquistare i favori del Simbolo.
Di per sé l’anziano costituisce l’elemento meno utile della comunità, ma, soprattutto nei momenti più critici, la sua figura si rivela preziosa e insostituibile, ed è proprio la sua età a conferirgli un fascino particolare: egli è colui che conosce meglio gli antenati, possiede una memoria storica più estesa e dispone di un bagaglio di esperienze più ampio, e il fatto stesso che è sopravvissuto per tanti anni costituisce la prova più evidente della sua capacità di affrontare i problemi. Per definizione l’anziano è un saggio e a lui una famiglia si rivolge in prima battuta quando si trova in difficoltà o quando deve prendere una decisione importante. L’anziano occupa un ruolo singolare nella comunità: per certi versi è un peso, per altri è insostituibile.

La figura dello sciamano
Col passare del tempo, la comunicazione col Simbolo diviene una vera e propria arte e si tendeva a riservare a persone speciali. Si afferma così la figura dello sciamano, il quale viene riconosciuto tale per certe sue particolari doti, che non sono più in funzione della sola età e che possono cambiare da clan a clan. Lo sciamano opera all’interno del proprio clan e svolge la funzione esclusiva di intermediatore tra sfera divina e sfera umana. È naturale dunque che a lui la comunità si rivolga quando sia afflitta da un male o si sente minacciata da un nemico, da un morbo o da un pericolo naturale. Quando il momento è grave e bisogna prendere una qualche importante decisione, quello è il momento dello sciamano. Di solito, quando viene invocato il suo intervento, lo sciamano non si lascia pregare ed entra in scena, pronto ad interpretare al meglio il ruolo cui è chiamato. In fondo non si tratta d’altro che di un rito: egli comincia col prepararsi adeguatamente nel corpo, cioè si dipinge e si adorna in modo da apparire il più visibile e appariscente possibile, e nello spirito, attraverso il ritiro e la meditazione. Se, così facendo, non riesce ancora a richiamare l’attenzione del Simbolo, ecco allora che ricorre alla recitazione di formule magiche, a danze, canti e gesti di vario genere. Prima o poi, ne è certo, il Simbolo si degnerà di comunicargli le sue volontà e di offrigli le chiavi per uscire dalla crisi. In quel momento, di fatto, lo sciamano sta interpretando il ruolo di capo indiscusso del clan e, infatti, egli è l’unico legittimato a spiegare gli eventi, prendere le decisioni opportune e farsi ubbidire.
Lo sciamano costituisce il principale punto di riferimento per tutta la comunità, che a lui si rivolge, almeno nei momenti di crisi, per propiziarsi i favori del dio tutelare, ma la sua posizione è altamente instabile, perché non sempre le sue arti producono l’effetto sperato. L’insuccesso è la prova evidente della sua impostura e non di rado egli rischia di essere abbandonato o ucciso, specie se la gente intravede già un valido sostituto. Allo scopo di assicurare una qualche stabilità al proprio potere, lo sciamano affina nel tempo la sua arte, che tende a trasformarsi in una vera e propria arte politica, fatta di stratagemmi, sottigliezze, promesse, condizioni e tanti compromessi. Ai giovani guerrieri egli infonde coraggio e fiducia, invocando su di loro i favori della divinità, alle donne promette abbondanza, salute e fertilità, a tutti pace e una numerosa discendenza, ma non si dimentica di lanciare un avvertimento chiaro e forte: le sue promesse si avvereranno solo a condizione che tutti i membri del clan saranno obbedienti e rispettosi nei confronti del loro sciamano e non vacilleranno alle prime difficoltà. Il dio, infatti, talvolta raggiunge i propri obiettivi in forma indiretta e mette alla prova i suoi fedeli, ma punisce senza pietà coloro che gli voltano le spalle e non rispettano lo sciamano. Di solito questa politica si rivela sufficiente a preservare il ruolo dello sciamano, a circondarlo di un’aura di sacralità, a tener viva la speranza nella gente, sì da indurla a sopportare con pazienza gli eventi avversi. Ma in certi casi non basta.
Il più delle volte, in un clan, ci sono più figure dotate delle qualità ritenute necessarie ad interpretare il ruolo dello sciamano e, fra queste figure, si possono instaurare divergenze e antagonismi, che possono portare, soprattutto in momenti critici, all’eliminazione fisica di uno sciamano in carica e alla sua sostituzione con un altro. Di qui, la tendenza da parte degli sciamani di adottare strategie atte a rendere più stabile e sicura la loro posizione, fra le quali la migliore sembra essere quella di stringere alleanze con gli anziani, ai quali cedono un po’ del proprio potere in cambio del loro appoggio nei casi in cui le cose non vadano per il verso sperato. Da figura chiave all’interno di ciascuna famiglia, l’anziano diventa così membro della gerontocrazia clanica e, insieme allo sciamano, tiene in pugno l’intera comunità. Si creano così le premesse per l’affermazione della tribù.

Dal clan alla tribù
Quasi sempre è un momento di crisi che porta due clan a relazionarsi e, il più delle volte, si tratta di una crisi di risorse alimentari. La carenza di cibo, sia essa indotta da una calamità naturale che da un eccessivo incremento demografico, spinge le famiglie di un clan a guardarsi intorno e ad esibire comportamenti inconsueti, come quello di integrarsi con famiglie di altri clan, o di impegnarsi in azioni di pirateria o di guerra. In pratica, spinti dalla crisi, due o più clan confinanti possono cercarsi, aiutarsi, osteggiarsi, attaccarsi, rappacificarsi, amarsi o odiarsi, ma, in ogni caso, essi intensificano i loro rapporti. Lo stato di bisogno può suscitare la voglia di unirsi in un unica comunità o quella di annientarsi ma, così facendo, sortisce l’effetto di accorciare le distanza fra i clan.
Un clima di tensione può spingere molte famiglie a fare pressione sugli sciamani, affinché chiedano al dio tutelare cosa sia meglio fare, quale sia la decisione migliore da prendere. In questi casi, è sufficiente che uno sciamano, dotato di particolare carisma, comunichi alla sua gente che il dio vuole l’integrazione dei clan ed ecco che può costituirsi la tribù, ossia un insieme di clan uniti sotto uno sciamano, un consiglio di anziani e un dio. Ma non si tratta ancora di una società matura e stabile: i singoli clan tendono a conservare la propria autonomia, sia in campo economico che culturale, e possono mantenere un proprio sciamano e un proprio dio tutelare. Non sono ancora maturi i tempi perché si sviluppi una profonda coscienza di appartenenza tribale, né perché si affermi la figura di un capo vero, inteso come carica pubblica istituzionalizzata.

La società tribale
Generalmente la tribù prende origine dalla fusione di diversi clan vicini e può comprendere migliaia di membri. A tenere coesi un così grande numero di individui provvedono, oltre ai tradizionali e sempre solidissimi legami di consanguineità, che consentono “il massimo coinvolgimento e la massima partecipazione alla vita di gruppo” (MUNI 1990: 45), anche i fattori culturali che, per la prima volta, acquistano un’importanza paragonabile a quella dei legami di sangue. Se è vero, infatti, che i membri del clan si ritengono fratelli in quanto discendenti da un antenato comune, seppure fittizio, è anche vero che in questo concetto di fratellanza possiamo ancora intravedere il vincolo parentale, sia pure inteso in senso metaforico. Con l’avvento della tribù, questo quadro cambia in modo sostanziale e ogni allusione alla famiglia scompare: per la prima volta, i membri estranei di clan diversi si sentono affratellati da vincoli esplicitamente culturali, come un passato comune, una lingua comune, valori comuni, credenze comuni, divinità comuni. In sostanza, la tribù costituisce il primo modello di società autenticamente culturale.
Rispetto al clan, la tribù si caratterizza per una maggiore dimensione demografica, una maggiore rilevanza dei legami di tipo culturale, una migliore organizzazione sociale e un migliore sfruttamento del territorio. La società tribale rimane, tuttavia, sostanzialmente, di tipo egalitario e i legami di consanguineità continuano a svolgere un ruolo importante. Il massimo organo politico, giuridico ed esecutivo è formato dal consiglio degli «anziani», che, tuttavia, non ha potere coercitivo, né sanzionatorio, ma solo un potere morale. Le singole famiglie hanno un eguale potere e il medesimo peso politico all’interno della tribù: le disuguaglianze ammesse sono quelle legate al sesso, all’età e alle capacità individuali. Alle donne viene riconosciuto “solo un ruolo riproduttivo” (ARIOTI 1991: 614), mentre solitamente i vecchi costituiscono un peso per il gruppo, che però è compensato dalle particolari qualità che si attribuiscono alla persona anziana, in termini di saggezza, di memoria storica e di conoscenze. Abitualmente, ciascun gruppo familiare provvede ai propri bisogni senza chiedere nulla agli altri, ma la situazione muta in caso di eventi avversi, allorché diverse famiglie e perfino l’intera tribù possono stringere rapporti di eccezionale solidarietà e acquista particolare importanza la figura dello sciamano. Lo stesso accade per le tribù confinati, che, di norma, vivono in modo autarchico, ma che, all’occorrenza, sono disposte ad unirsi contro un nemico comune. “I nomadi sono molto individualisti. Tuttavia stringono alleanza, se qualche cosa li minaccia, ma solo allora” (VARDIMAN 1998: 226).
Con l’affermazione della tribù il clan entra parzialmente nell’ombra, mentre rimane molto vitale la famiglia, che però subisce importanti cambiamenti. Inserita in un contesto più ampio, essa non deve più sopportare in esclusiva la responsabilità di garantire la sopravvivenza dei singoli individui ed è quindi più libera di organizzarsi e di muoversi all’interno del territorio, di unirsi ad altre o di separarsene. Questa maggiore libertà si accompagna ad un ampliamento della gamma di opportunità e di prospettive, il che non costituisce necessariamente un vantaggio, ma può esserlo.
Nelle regioni aride o desertiche, a scarsa densità demografica, la vita delle famiglie è quella dei nomadi. Ci si muove da un luogo all’altro in cerca di cibo portando con sé solo quanto si ritiene necessario per i bisogni della giornata, che può variare a seconda che a spostarsi è una sola persona, una sola famiglia o un gruppo più numeroso. Quando un nomade si sposta da solo, o con qualche compagno, il suo equipaggiamento fondamentale è costituito “da un bastone o da una clava, e da una fionda con una borsa di pelle colma di pietre” (VARDIMAN 1998: 30). Ma se, insieme a lui, si muove l’intera famiglia, ci si porta dietro qualche altro oggetto, come un otre pieno di acqua, un bastone da scavo, altri bastoni e delle pelli per poter montare una tenda, qualche pezzo di carne essiccata o un’ascia immanicata da usare come utensile o come arma. “Per il nomade tutto ciò che non è indispensabile è d’ingombro” (VARDIMAN 1998: 266). Di fisso rimane qualche campo base situato in zone particolarmente ricche di risorse, dove alcuni gruppi possono sostare per un tempo indeterminato, vivendo in stretta vicinanza e stabilendo rapporti più o meno stabili e profondi.

La vita quotidiana della società tribale
Nel complesso la vita quotidiana dell’uomo tribale non si svolge in modo apparentemente diverso rispetto a quella dell’uomo clanico. Entrambi continuano a praticare la caccia e la raccolta, non costituiscono riserve alimentari e costruiscono i loro utensili e le loro armi con prodotti che trovano in natura.
Agli inizi la società tribale non presenta sostanziali elementi di distinzione dalla società di clan, che l’ha preceduta. In particolare, essa rimane una società egalitaria, nella quale ciascun gruppo familiare vive in modo autonomo ed è libero di intavolare o meno rapporti di qualunque genere con gli altri gruppi. Le disuguaglianze ammesse continuano ad essere quelle legate al sesso, all’età e alle capacità individuali, e gli anziani continuano ad essere visti come fonte di conoscenza e modelli di saggezza. Sono loro, che riuniti in Consiglio, guidano la tribù e prendono le decisioni nei momenti di maggiore difficoltà, ma non dispongono di un apparato coercitivo in grado di imporre la propria volontà. Fa eccezione la figura dello sciamano, che può acquistare speciali poteri nei momenti di crisi e di pericolo.
Anche la vita quotidiana dell’uomo tribale continua ad essere quella del cacciatore-raccoglitore, ma con la differenza che adesso l’attività di caccia è praticata maggiormente e con maggior successo. È soprattutto la caccia ad animali di grossa taglia che induce le diverse famiglie a coalizzarsi sì da mettere insieme una squadra di decine di soggetti adulti, che si organizzano in funzione di un obiettivo comune. Se la preda abbattuta è grande, essa di solito viene macellata sul posto, squartata e divisa in tante parti quante sono le famiglie rappresentate nella squadra dei cacciatori. Poi ciascuno fa ritorno nel proprio campo base e porta la sua parte di selvaggina, o ciò che ha raccolto, che viene poi diviso fra tutti i membri della famiglia. Frutta, bacche, tuberi e verdure vengono consumati così come sono, mentre le spighe d’orzo selvatico vengono battute per estrarne i chicchi che in parte vengono mangiati e in parte utilizzati dai bambini per il gioco.

Lo sviluppo del linguaggio e dell’autocoscienza
Rispetto alla società clanica, nella società tribale si possono rilevare almeno due sostanziali differenze, entrambe di natura culturale: un linguaggio simbolico e un’autocoscienza più evolute, con tutto ciò che ne consegue.
Il linguaggio si è andato sviluppando fino a comprendere centinaia di termini, per mezzo dei quali gli uomini possono comunicare ogni genere di informazione, compresi i sentimenti e gli stati d’animo, e non solo all’interno dello stesso gruppo, ma anche fra clan confinanti. La diffusione del linguaggio simbolico, se da un lato crea le condizioni per una vita di relazione sempre più articolata e intensa e una migliore reciproca conoscenza fra gruppi diversi, dall’altro consente la formulazione verbale di norme condivise e regole formali di buon vicinato, contribuendo, in modo determinante, alla costituzione di una società stabile. Grazie all’autocoscienza, invece, l’uomo diviene consapevole della propria esistenza e delle proprie emozioni, della gioia e del dolore, del bene e del male, della vita e della morte, ed ha una qualche idea del proprio esclusivo ruolo nell’ambiente dove vive.
Linguaggio ed autocoscienza costituiscono i due principali fattori distintivi del Sapiens. Grazie ad essi, ogni cosa acquista un significato simbolico e culturale, e tutta la realtà viene interpretata e tradotta in idee e pensiero. In un certo senso è come se l’uomo convertisse la natura in cultura, il mondo fisico che lo sovrasta in un mondo simbolico che gli appartiene. Attraverso la cultura l’uomo si appropria del mondo circostante, lo controlla e lo spiega. Se prima l’uomo era parte integrante di un modo naturale e biologico, al quale obbediva in modo inconsapevole, alla pari di ogni altro animale, adesso egli interpreta e traduce il mondo e se stesso in categorie simboliche, che sono sue proprie. Adesso l’uomo comincia a interrogarsi sistematicamente su ciò che osserva e le risposte che trova altro non sono che tentativi di spiegare la realtà alla luce del proprio pensiero, di ricondurla alla propria dimensione. Le conseguenze di questa rivoluzione culturale saranno, come vedremo, di straordinaria importanza.

Le conseguenze della rivoluzione culturale
Che cos’è la vita? Perché, dopo la morte, il corpo non è più in grado di muoversi e va in putrefazione? La risposta che ottiene i maggiori consensi è la seguente: il corpo si anima per la presenza di uno spirito vitale e muore dopo che quello spirito lo ha abbandonato. Sullo spirito vitale si vanno costruendo numerose congetture, alcune delle quali avranno un seguito straordinario. Qualcuno immagina che lo spirito vitale possa vagare nello spazio, da solo o in compagnia di altri spiriti, e possa anche ritornare sulla terra, penetrare in un corpo inanimato e farlo rivivere, interferendo così negli affari degli uomini e arrecando loro male o bene. Queste concezioni riscuotono un enorme successo, non solo e non tanto perché si adattano perfettamente alla tipica mentalità animistica dei nostri progenitori, ma soprattutto perché consentono di dare risposte chiare ed emotivamente coinvolgenti non solo alla realtà della morte, ma anche ad alcuni imbarazzanti interrogativi esistenziali come il dolore, le malattie e la sfortuna. È come avere scoperto la causa ultima delle cose. Per quanto discutibile e inesatta, questa forma di conoscenza svolge una funzione psicologica di primaria importanza: essa fa sì che l’uomo abbia l’impressione di controllare una realtà altrimenti misteriosa, alimenta in lui la speranza che sia possibile trovare un rimedio ad ogni problema, gli conferisce un senso di sicurezza e lo aiuta a placare le sue ansie, a vincere le sue paure.
La morte è uno dei principali motivi di paura. L’uomo non si rassegna a questa realtà: non può accettare che una malattia, un incidente o semplicemente la vecchiaia possano troncare la propria vita o la vita di una persona cara. La morte rappresenta la massima espressione del dolore e della sofferenza, e sconfiggerla significherebbe assumere il pieno controllo degli eventi; subirla vorrebbe dire, invece, restare in balia della paura. Nonostante che l’uomo non abbia alcun reale potere sulla morte, egli riesce ad esorcizzarla semplicemente attribuendo ad essa un significato simbolico. Se la morte altro non è che la conseguenza dell’uscita dello spirito dal corpo, ne deriva che essa riguarda solo il corpo, mentre la vera vita, quella dello spirito, continua. In questo modo, la morte cessa di essere un evento del tutto negativo ed entra nel mistero, ossia nel campo della possibilità assoluta, nella sfera della pura fantasia, nel tutto e nel niente. Essa non è più una semplice negazione della vita ma, assumendo il significato di un «cambiamento di vita», diventa compatibile con una nuova vita e alimenta la speranza.
Potrebbe, lo spirito vitale, ritornare e far rivivere quel corpo che ha abbandonato? E perché no? In linea teorica ciò è possibile, ma è necessario che si verifichino certe condizioni: a tale proposito ogni tribù, facendo leva sulla propria capacità di immaginazione, crea proprie specifiche usanze e credenze. Una delle usanze di maggior successo è certamente quella che impone di non abbandonare il cadavere sul terreno o darlo in pasto agli animali perché, in tal caso, lo spirito di quel corpo vagherebbe senza fine e potrebbe causare guai per i viventi. Solo se si adagia il cadavere in un luogo protetto o in una fossa scavata nel terreno, lo spirito sarebbe libero di ricongiungersi con esso e farlo rivivere, prima che si trasformi in polvere, o forse anche dopo. Qualcuno invece preferisce la pratica dell’incenerimento del cadavere, immaginando che le fiamme favoriscano, accelerandolo, il ricongiungimento del corpo col suo spirito in cielo. È così che, a partire da 30 Kyr fa, i riti funerari si siano andati diffondendosi nelle diverse tribù, sia pure in diversa forma. Altri, insieme al cadavere, inumano scorte alimentari e oggetti d’uso quotidiano, convinti che potrebbero servire al defunto nella sua nuova vita. Altri ancora ricorrono al sacrificio di animali o congiunti perché facciano compagnia al defunto nel suo viaggio verso il nuovo mondo. Oltre ad alleggerire l’altrimenti insostenibile fardello della morte, queste pratiche funerarie, nelle loro varie espressioni, rispondono al bisogno dell’uomo di immortalità, che è innato, ma diventa cosciente solo in questo periodo.
Un’altra importante conseguenza di questa rivoluzione culturale è il diverso peso che l’uomo comincia ad attribuire a certe attività apparentemente futili e non legate alla sopravvivenza, come la pittura e la scultura, che finiscono di essere un semplice gioco e diventano arte, un bisogno prima sconosciuto. Il disegno di un bisonte può voler significare un generico inno alla forza o un modo per appropriarsi della potenza dell’animale da parte dell’artista o della comunità, o un semplice compiacimento estetico, o tutte queste cose insieme, o altro ancora. Disegnare un bisonte trafitto dalle frecce e dalle lance può significare il dominio dell’uomo sulla bestia, così come disegnare un vulcano, il sole, la luna o le stelle può significare l’ingraziamento dei loro spiriti o il parziale controllo dell’uomo sulla natura. Raffigurare un essere inanimato come il sole o semplicemente pronunciare il suo nome può essere l’unico modo per controllarlo ed estendere su di esso il proprio dominio. Disegnare la figura di una donna o una spiga può significare un augurio di fertilità e abbondanza. Riprodurre l’effigie di una divinità tribale o un antenato, di cui si serba un ricordo di grandezza, può voler dire propiziarsi i loro favori. Un osso colorato o un sasso scolpito possono essere oggetti sacri o assumere diversi significati simbolici, come quello di richiamare il ricordo di una norma o di un accordo, di un confine, di una promessa. Anche l’arte dunque costituisce una risposta culturale dell’uomo alle sfide della vita e ai propri bisogni.
La capacità di manipolare simboli astratti sta alla base di una delle più sorprendenti conquiste dell’uomo: la creazione della sfera del divino. Il primo passo è costituito dalla divinizzazione del Simbolo clanico, che avviene per gradi, a mano a mano che l’uomo impara a padroneggiare meglio le sue idee e a definire con maggior cura i suoi pensieri. Così, per esempio, il corpo dell’aquila potrà essere sostituito da un pezzo di legno o una pietra colorati, che, fissati all’estremità di un bastone, continuano a conservare il nome e le funzioni della vecchia «aquila infilzata», anche se non hanno più niente in comune con essa. In un secondo momento, attraverso un processo di trasfigurazione, l’aquila viene a perdere ogni connotato fisico e assume le sembianze di uno spirito benigno, che ha a cuore il benessere del suo clan. Allo stesso modo, il «nemico invisibile» si trasfigura in uno «spirito» perfido e maligno, che vuole la rovina del clan. Ecco come prendono forma le idee di divinità benefiche e malefiche, che si ritiene siano tra loro in eterna opposizione e competizione. Da questo momento ogni famiglia, ogni banda, ogni clan potranno avere le proprie divinità tutelari e i propri spiriti avversi. Nello stesso tempo, si va diffondendo la credenza che la buona e la cattiva sorte di ciascun individuo e di ciascun gruppo siano la risultante delle influenze di questi spiriti, della loro volontà, delle loro azioni e delle loro rivalità.
Alla fine del Paleolitico inferiore ci sono divinità per tutti i gusti, ciascuna con una specifica funzione nel bene e nel male: ci sono gli dèi dell’amore e dell’odio, gli dèi della fortuna e della sfortuna, della fertilità e della sterilità, dell’agiatezza e della penuria, della gioia e del dolore, della codardia e del coraggio, della salute e della malattia, della vita e della morte, e via dicendo. Così ogni evento oscuro, o che non sia sotto il diretto controllo dell’uomo, viene collocato nella sfera divina e spiegato in modo diverso da tutto ciò che è comprensibile: quel che è bene proviene da spiriti buoni, quel che è male da spiriti malvagi. Grazie a questa trasposizione, l’uomo riesce a controllare il mondo indirettamente, attraverso la divinità, liberandosi dal peso di tante responsabilità e tenendo sempre viva la propria speranza in un futuro migliore.
Un modo tanto geniale e semplice di affrontare i problemi non può che riscuotere un enorme successo, ed è così che, già alla fine del Paleolitico, tutti gli eventi umani sono posti sotto il controllo diretto di una divinità. All’uomo altro non resta che adoperarsi per orientare a proprio favore la potenza degli dèi e lo fa attraverso azioni rituali, che finiscono per assumere l’aspetto di un vero e proprio culto, il che rafforza la figura e il ruolo dello sciamano, che è l’intermediatore fra il divino e l’umano. Di norma, lo sciamano si rivolge al dio tutte le volte che lo ritiene necessario o quando la sua gente glielo chiede, ma, talvolta, è il dio che prende l’iniziativa e si manifesta ad uno sciamano distratto, trasmettendogli messaggi durante il sonno o nei momenti di invasamento o di estasi.
La figura istituzionale dello sciamano è premonitrice di quella divisione del lavoro che andrà a costituire una delle caratteristiche essenziali delle future società umane, ma che ancora, nel gruppo tribale, praticamente non esiste. La tribù, sostanzialmente, ignora la divisione del lavoro e, al suo interno, il principale legame fra gli uomini rimane quello parentale, mentre i valori culturali non sono ancora così forti da garantire incondizionatamente la coesione sociale fra estranei. Ne consegue che, specie durante i periodi di scarsità, gli antagonismi e i conflitti sono ancora così diffusi e intensi da profilare il rischio di disordini interni o di scontri armati fra tribù. Quando questo rischio diventa realtà, si può avvertire il bisogno di un capo o di una qualche autorità collegiale, un «leader» o un’«élite», in grado di imporre un codice di norme e farlo rispettare, o anche di guidare la propria gente in uno scontro armato fra gruppi tribali ovvero di assicurare la pace e la prosperità interne.
Di norma un leader viene prescelto con cura dai capifamiglia riuniti in consiglio, ma solo in situazioni di emergenza e secondo le necessità del momento. Il più delle volte la scelta cade su chi disponga di maggior vigore fisico, intelligenza, saggezza e coraggio, e, in particolare, su chi è abituato a spingersi fin nelle zone più estreme del territorio, a perlustrare la linea di confine e a occuparsi dei rapporti con gli altri gruppi, ossia su coloro che ho chiamato uomini del confine, che sono ritenuti i soggetti più adatti a stipulare accordi con i «colleghi» di un altro clan, ma anche ad organizzare il proprio clan in vista di un’azione armata. Nessuno meglio di loro, infatti, conosce non solo il territorio periferico, ma anche i gruppi vicini, i loro punti forti e quelli deboli, e nessuno meglio di loro può sapere come gestire in modo ottimale i rapporti di buon vicinato o come, dove e quando sferrare un attacco od organizzare un’azione di forza con probabilità di successo.
Gli uomini di confine rappresentano, per così dire, i soggetti più adatti ad esercitare il potere esecutivo, mentre il potere legislativo, che è ritenuto essere proprio del dio, compete allo sciamano. Non si tratta però ancora di ruoli stabili: gli uomini del confine emergono solo nei momenti di pericolo, cessato il quale, essi, allo stesso modo che lo sciamano, ritornano ad essere come gli altri e non esercitano più alcun potere specifico. In realtà, nulla ritorna esattamente come prima, perché la volontà che il dio ha manifestato in occasione dei momenti più difficili continua ad essere ricordata e temuta anche nei periodi di benessere e di pace, e quindi esercita un peso rilevante nel forgiare il senso comune e la struttura sociale stessa. Quando poi, per una ragione o per l’altra, si giunge all’unione di più clan e alla costituzione di una tribù, di solito lo sciamano del clan dominante impone a tutti gli altri la volontà del proprio dio, ossia la cultura del proprio clan, che diventa «legge» per l’intera tribù. Di norma, quando ciò avviene, l’intera comunità esplode in manifestazioni di giubilo e adulti e bambini, i volti dipinti e i corpi adornati, danzano e cantano davanti alla divinità clanica comune in segno di riconoscenza e ringraziamento per la concordia raggiunta e la nascita di un grande «popolo». Simili avvenimenti verranno raccontati di generazione in generazione ed entreranno a far parte della memoria storica di ogni tribù.
Alla fine, nella tribù convivono tante e diverse tradizioni claniche disposte, per così dire, in ordine gerarchico, in modo tale che le tradizioni del clan dominante occupino il primo posto, anche se si lasciano permeare da elementi provenienti dalle culture degli altri clan. In ultima analisi, la tribù è una società complessa, formata da diverse unità claniche che, solo apparentemente, sono tra loro legati da rapporti cultural-religiosi, mentre, in realtà, sono legati da rapporti di forza, e poiché questi rapporti variano continuamente, non è facile pervenire ad una organizzazione sociale solida, sicché le tribù continuano ad essere, di fatto, società instabili e sempre in bilico tra il desiderio di ritornare alle condizioni di piena libertà che offriva il vecchio clan e la volontà di darsi un ordinamento sociale saldo e ben definito. La prima tendenza prevale nei periodi di benessere, allorché i singoli gruppi familiari vivono autonomamente, mentre nei momenti di crisi la tribù si dimostra più disposta a compattarsi e ad accettare una disciplina comune.

Nuove acquisizioni culturali
La necessità di cacciare, scuoiare e squartare gli animali catturati induce l’uomo a guardarsi intorno alla ricerca di materiali e oggetti che possano aiutarlo nello svolgimento di queste attività. Legna, cortecce d’albero, liane, fibre vegetali, pelli, ossa, avorio, corna, budella, peli, conchiglie e, soprattutto, pietre, tutto ciò viene selezionato con cura, lavorato con tecniche sempre più perfezionate e utilizzato per gli scopi più disparati. Selce, quarzo, basalto, granito, ossidiana, calcedonio, diaspro, ftanite, ed altro, vengono lavorati con l’aiuto di percussori di legno, ossa o corna di animali. Vanno già comparendo luoghi appositamente prescelti per la raccolta e la lavorazione delle pietre e cominciano ad affermarsi figure paragonabili ai futuri artigiani (si può già parlare di «industria»), anche se ancora, in larga misura, ciascuna famiglia provvede al proprio fabbisogno raccogliendo le pietre e lavorandole in qualche angolo del campo base ritenuto più adatto e con la partecipazione di tutti, senza una chiara divisione dei compiti.
Ossa e rami allo stato naturale possono essere impiegati come armi o per ricavarne utensili vari: punteruoli, pettini, seghe, taglienti, oggetti ornamentali ed altro ancora. I teschi più appariscenti, quelli cioè che appartenevano ad animali di grossa taglia o provvisti di corna, vengono posizionati qua e là, in luoghi bene in vista, quasi a fare da sentinelle, proteggere il territorio da spiriti malefici, incutere paura e tenere lontano ogni possibile nemico. La pelle può servire per rendere più comodo il giaciglio, coprirsi nelle giornate fredde, proteggersi dalle facili graffiature, quando si procede nella sterpaglia o nel bosco, o come materiale adatto a costruire un riparo o una tenda; tagliata a strisce, essa può essere usata come corda o come cintura o per tenere stretto al corpo una veste. Le corde di cuoio vengono anche usate, insieme alle fibre vegetali, per legare pietre lavorate all’estremità di un bastone.
Gli uomini non trascorrono l’intera giornata alla ricerca di cibo e di tutto ciò che è necessario alla loro sussistenza. Al gioco viene riservato una parte di tempo, che varia sia in funzione dell’età che dei particolari momenti, essendo massimo nell’infanzia e nei momenti più favorevoli. Quando le cose vanno bene e la natura produce in abbondanza, anche gli adulti partecipano di buon grado ad attività ludiche. Alla fine, il gioco entra a far parte del costume e diventa una pratica collettiva, non priva di importanti risvolti pratici. Spesso, infatti, è dal gioco che nascono le idee, dalle quali poi prenderanno origine importanti scoperte e invenzioni. Vediamone qualche esempio.
Abitualmente i ragazzi più grandi tengono lontani i cani lanciando contro di loro dei sassi, ma un giorno uno di loro è illuminato da un’idea, ed ecco che afferra una striscia di cuoio e, tenendone con una mano le due estremità, vi ci appoggia, proprio nel centro, un bel sasso, poi, dopo averla fatta roteare, molla uno dei capi e il sasso schizza via ad una velocità straordinaria. Quel ragazzo ha inventato la fionda, una tecnica di lancio che si diffonderà ben presto fra i clan, divenendo uno dei giochi preferiti dei ragazzi: vince chi lancia il sasso più lontano o chi colpisce un bersaglio prestabilito. Solo in seguito, gli adulti capiranno che quel nuovo strumento poteva essere utile per abbattere qualche preda o per allontanare i predatori.
Non molto diversa dev’essere l’origine dell’invenzione dell’arco. È sufficiente individuare un ramo robusto e flessibile, renderlo regolare e tagliarlo in modo da ricavarne un’asta lunga circa un metro, alle cui estremità si lega una corda di cuoio e la si tende in modo da incurvare l’asta. Occorre poi creare delle aste più sottili, ossia le frecce, e l’arco è pronto per l’uso. Deve essere uno spasso per i ragazzi gareggiare nel costruire l’arco più valido, lanciare le frecce il più lontano possibile, colpire bersagli fissi o animali o anche se stessi. A meno che la freccia non colpisca un occhio, il gioco è relativamente innocuo. Anche in questo caso, solo in un secondo tempo gli adulti perfezioneranno l’arco e impareranno a servirsene come arma.
Un’altra importante acquisizione culturale consiste nell’uso di coloranti naturali, che adulti e ragazzi scoprono mentre esplorano l’ambiente sotto la spinta della loro curiosità. Stiamo parlando dell’ocra (rossa, gialla, violetta), del biossido di manganese (nero), del carbone (nero), dell’indaco (azzurro) e di altre sostanze, di cui l’uomo impara a servirsi per dipingere il proprio corpo o certi utensili, ma anche per imprimere dei segni sulle rocce, sugli alberi o sulle pareti delle caverne. Quello che all’inizio è solo un gioco, col passare del tempo, acquista un significato simbolico e alimenta il consolidarsi di usanze e di mode, che verranno poi ricordate come nobili tradizioni culturali.

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